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Sentenza Corte di Cassazione, Sezione Lavoro

n. 8919 del 13 aprile 2007

Cassazione: natura subordinata del rapporto di lavoro? Va accertata in concreto

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione Civile (Sent. n. 8919/2007) ha stabilito che la natura subordinata di un rapporto di lavoro deve essere accertata in concreto e non può essere desunta dalle relative norme cui è disciplinata.
I Giudici di Piazza Cavour hanno poi precisato che l’accertamento in concreto della natura del rapporto di lavoro deve poi essere raffrontarla con la fattispecie che caratterizza la nozione legale di subordinazione.
In particolare la Corte ha precisato che "ove l'Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato abbia fatto ricorso alle convenzioni di cui alla L. 30 dicembre 1959, n. 1236, art. 26 (espressamente conservato in vigore dalla L. 27 luglio 1967, n. 668, art. 31) per l'espletamento dei servizi (cosiddetti di accudienza o comunque di "minima importanza") previsti dal medesimo art. 26, il giudice - richiesto dell'accertamento del carattere subordinato del rapporto - deve verificare le concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa dell'incaricato per poi raffrontarle con quelle che caratterizzano la nozione legale di subordinazione, senza che dall'art. 26, possa farsi discendere una vincolante qualificazione del rapporto come di lavoro autonomo, dato che questa interpretazione sarebbe contrastante con i principi costituzionali".


Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso, con il quale si deduceva il difetto di giurisdizione dell'AGO, con violazione e falsa applicazione della L. n. 210 del 1985, art. 23, è stato rigettato dalle Sezioni Unite della Corte con sentenza n. 16900 del 6/25 luglio 2006.

La causa è stata rimessa a questa Sezione per la decisione degli altri due motivi.

2. Con il secondo motivo la difesa della società denuncia violazione e falsa applicazione della L. 30 dicembre 1959, n. 1236, art. 26; del D.M. 26 luglio 1971, n. 10947; degli artt. 1362, 2094 e 2095 c.c.;

nonchè vizio di motivazione su punti decisivi.

Lamenta che il Pretore prima e il Tribunale poi hanno ritenuto di procedere all'istruttoria del giudizio nonostante la volontà, chiaramente espressa nelle convenzioni, fosse indirizzata ad escludere la natura subordinata del rapporto.

Deduce che i servizi resi dal ricorrente costituivano, ai sensi della L. n. 1236 del 1959, art. 26, prestazioni d'opera senza vincolo di subordinazione. Evidenzia che la L. 26 marzo 1958, n. 425, sullo stato giuridico del personale delle Ferrovie (da assumere mediante pubblico concorso), non prevede la categoria degli addetti ai servizi, regolata solo l'anno dopo con la L. n. 1236 del 1959, e poi con il D.M. n. 1432 del 1962 e il D.M. n. 1094 del 1971.

Rileva che i decreti ministeriali contengono disposizioni assolutamente incompatibili con la pretesa natura subordinata del lavoro di accudienza, quali il deposito cauzionale (art. 3), la previsione che l'incaricato abbia propri dipendenti (art. 4), la responsabilità per danni (art. 11), alcune ipotesi di risoluzione in tronco del rapporto di lavoro (art. 17).

Lamenta che, oltre a violare la L. n. 1236 del 1959, art. 26, che al comma 3, parifica ai lavoratori subordinati gli addetti ai servizi con carattere continuativo e con corrispettivo non inferiore ai 52/100 della retribuzione degli assuntori, ma solo agli effetti dell'assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchia a e superstiti di cui al R.D. n. 1827 del 1935, i Giudici di appello non hanno esposto il ragionamento logico giuridico che li ha condotti a ritenere la natura subordinata del rapporto.

Richiama alcune sentenze di questa Corte, che avrebbero affermato il carattere autonomo del rapporto di lavoro di cui al citato art. 26.

Aggiunge che i Giudici di appello hanno del tutto omesso di considerare l'accordo intervenuto con le OO.SS. in data 27 maggio 1999, con il quale è stato disposto il passaggio, dal (OMISSIS), del personale addetto ai servizi nei ruoli F.S., con conseguente applicazione del ceni del personale ferroviario.

Contesta inoltre che il lavoratore abbia dato la prova di svolgimento di lavoro straordinario.

3. Il motivo non è fondato.

Va preliminarmente rilevato che non vi è stata violazione della L. n. 1236 del 1959, art. 26, e che questa Corte non ha mai affermato che le convenzioni stipulate in forza di questo articolo debbano necessariamente avere per oggetto prestazioni autonome, senza alcuna indagine sul concreto svolgimento del rapporto.

E' vero, invece, che è stato ripetutamente affermato che "Ove l'Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato abbia fatto ricorso alle convenzioni di cui alla L. 30 dicembre 1959, n. 1236, art. 26 (espressamente conservato in vigore dalla L. 27 luglio 1967, n. 668, art. 31) per l'espletamento dei servizi (cosiddetti di accudienza o comunque di "minima importanza") previsti dal medesimo art. 26, il giudice - richiesto dell'accertamento del carattere subordinato del rapporto - deve verificare le concrete modalità di svolgimento dell'attività lavorativa dell'incaricato per poi raffrontarle con quelle che caratterizzano la nozione legale di subordinazione, senza che dall'art. 26, possa farsi discendere una vincolante qualificazione del rapporto come di lavoro autonomo, dato che questa interpretazione sarebbe contrastante con i principi costituzionali" (Cass., 7 aprile 2003 n. 5426; 20 novembre 1998 n. 11756; 7 ottobre 1997 n. 9722).

I Giudici di appello hanno accertato, sulla scorta delle testimonianze acquisite, che il rapporto di lavoro si è svolto concretamente con le caratteristiche del lavoro subordinato, in quanto il lavoratore non aveva alcun margine di discrezionalità nello svolgimento delle sue mansioni, essendo il lavoro del tutto eterodiretto (dal capostazione); in quanto, contrariamente a quanto previsto dalle convenzioni e dal capitolato, le sostituzioni in caso di malattia del lavoratore non avvenivano a cura dell'incaricato stesso, ma era l'Azienda che provvedeva anche con proprio personale;

in quanto le assenze per malattia dovevano essere giustificate con certificato del medico di fiducia dell'incaricato, da consegnarsi al medico dell'Azienda, che a sua volta ne rilasciava un altro da consegnare al capostazione; in quanto le ferie, anche se preventivamente concordate fra i tre incaricati addetti all'impianto (per assicurare il servizio durante i periodi feriali, come può avvenire anche fra lavoratori subordinati), erano comunque successivamente approvate dal capostazione.

Si tratta di argomentazioni congrue, prive di vizi logici, che hanno fatta corretta applicazione degli artt. 2094 e 2095 c.c., e che non risultano neppure specificamente censurate dalla società ricorrente.

Quanto alla lamentata omessa considerazione dell'accordo raggiunto con le OO.SS. il 27 maggio 1999, rileva la Corte che la ricorrente non deduce di avere sollevato tale questione nel corso del giudizio di appello e di avere invocato, in caso di contestato accoglimento della domanda, l'applicazione di un diverso contratto collettivo, anche ai fini dell'art. 36 Cost..

Il che rende la censura inammissibile; e ciò a prescindere dal fatto che il testo dell'accordo, come riportato in ricorso, si limita a prevedere l'applicazione del contratto collettivo del personale F.S., a decorrere dal (OMISSIS), a coloro che erano già dipendenti della società F.S. quali addetti ai servizi di accudienza, apertura passaggi a livello, assistenza all'infanzia presso l'asilo nido "(OMISSIS)".

Le censure relative alla prova di svolgimento di lavoro straordinario sono anch'esse inammissibili, atteso che i compensi per lavoro straordinario, come precisato nella sentenza impugnata (pag. 9), riguardano il periodo 1979/1983, ritenuto coperto da prescrizione.

4. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2946 c.c. e segg. e art. 2935 c.c., nonchè vizio di motivazione, la difesa della società critica la sentenza nella parte in cui ha ritenuto valido atto interruttivo la missiva del 24 settembre 1991.

Espone che controparte aveva prodotto la fotocopia di una lettera datata 24.9.91, redatta dall'avv. Palumbo, asseritamente difensore all'epoca del sig. M., contenente richieste economiche; e aveva allegato, a dimostrazione del ricevimento della lettera, copia di avviso di ricevimento corrispondente al n. 5189 datato 21.10.91.

Deduce che tale avviso era lo stesso depositato in numerosi altri giudizi ma correlato a differenti lettere individuali asseritamente interruttive della prescrizione, accompagnate, secondo la tesi di controparte, da una lettera riepilogativa dei nominativi dei lavoratori interessati.

Lamenta che il Tribunale ha accolto tale tesi senza alcuna motivazione, non considerando che le numerose lettere costituivano un vero e proprio "pacco raccomandato", mentre la ricevuta di pagamento reca l'importo di L. 4.700.

Aggiunge che comunque le lettere individuali e quella cumulativa non possono esser considerate atti interruttivi, attesa la genericità della formulazione e la mancata sottoscrizione della parte.

Il motivo non è fondato.

Nella sentenza impugnata (pag. 9) il Tribunale afferma che già il Pretore aveva riconosciuto che, con nota del 24.9.1991, ricevuta il 21.10.1991, era stato validamente interrotto il termine, pur omettendo di considerare che il ricorrente aveva chiesto anche differenze retributive per il quinquennio anteriore al 24.10.1991, tutte analiticamente conteggiate in un atto allegato al ricorso di primo grado; che a tale lettera la stessa società fa riferimento a pag. 10 delle note autorizzate depositate il 20.2.2001; che è irrilevante "la circostanza che ad altra lettera, relativa a tale M.B., depositata in data odierna, recante la medesima data, sia allegata la medesima ricevuta della nota prodotta in questo giudizio, giacchè nulla vieta che, nello stesso plico, fossero inserite più missive".

La motivazione è corretta e priva di vizi logici, mentre la società ricorrente non indica se e in quale atto del giudizio di appello abbia tempestivamente sollevato la questione nei termini individuati nel ricorso per cassazione; il che rende la censura inammissibile.

Per tutto quanto esposto il ricorso va rigettato, con la conseguente condanna della società al rimborso delle spese di giudizio nei confronti del resistente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il secondo e il terzo motivo del ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso, in favore del resistente, delle spese di giudizio, in Euro 26,50 per spese ed in Euro 3.000,00 per onorario di avvocato, oltre spese generali ed oneri di legge.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2007.