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PRESA DI POSIZIONE DELLE SEZIONI UNITE SULLA RILEVANZA DEL "NOMEN JURIS" NELL’ACCERTAMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO

Prevale la situazione di fatto determinatasi nello svolgimento del rapporto

(Cassazione Sezioni Unite Civili n. 61 del 13 febbraio 1999, Pres. Vessia, Rel. Roselli).

A.R. ha lavorato per il comitato regionale pugliese della Lega nazionale dilettanti -organo periferico della Federazione italiana giuoco calcio- in base ad un contratto nel quale si manifestava la volontà di costituire un rapporto di collaborazione autonoma.

Egli ha successivamente chiesto al Pretore di Bari di accertare che in effetti aveva lavorato in condizioni di subordinazione e di condannare il comitato regionale, la Federazione e la Lega nazionale al pagamento delle retribuzioni non corrispostegli.

I convenuti si sono difesi sostenendo che la causa avrebbe dovuto essere promossa davanti al giudice amministrativo e che comunque, essendo stato stipulato tra le parti un contatto di collaborazione autonoma, doveva escludersi la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato.

Sia il Pretore, che in grado di appello, il Tribunale di Bari hanno accolto la domanda, affermando che le parti, pur dichiarando di voler costituire un rapporto di lavoro autonomo, avevano in concreto posto in essere un rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dalla soggezione del lavoratore alle direttive dei funzionari del comitato regionale, dalla retribuzione mensile, dall’inserimento nella pianta organica e dal dovere di osservare un orario quotidiano.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 61 del 13 febbraio 1999, Pres. Vessia, Rel. Roselli), ha rigettato il ricorso dei datori di lavoro affermando, in primo luogo la giurisdizione del giudice ordinario in base all’art. 14 della legge 23 marzo 1981 n. 91 concernente le federazioni sportive nazionali.

Nel merito le Sezioni Unite hanno affrontato la questione, spesso dibattuta nelle controversie di lavoro, della rilevanza del cosiddetto nomen juris ossia della definizione data dalle parti al rapporto di lavoro.
Accade infatti molto spesso che, dopo avere lavorato in base a un contratto definito di "collaborazione autonoma", un lavoratore sostenga che il rapporto abbia avuto in effetti le caratteristiche del lavoro subordinato. In materia la giurisprudenza ha talora registrato contrasti in ordine alla importanza da attribuire alla volontà espressa dalla parti nel contratto.

Le Sezioni Unite nella sentenza n. 61 del 1999 hanno preso decisamente posizione a favore dell’orientamento che nega la preminenza della volontà dichiarata rispetto alle concrete vicende del rapporto di lavoro.
La Corte ha rilevato che la divergenza tra il "nomen juris" e l’effettivo contenuto del rapporto può verificarsi in tre casi: a) quando le parti, nel contratto, facciano formale riferimento a un rapporto di collaborazione autonoma per evitare i maggiori costi derivanti dal regime della subordinazione; b) quando l’espressione letterale abbia tradito la vera intenzione della parti; c) quando le parti pur avendo voluto, al momento della conclusione del contratto, costituire un rapporto di lavoro autonomo, nella fase esecutiva, attraverso fatti concludenti mostrino di avere mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione.
Nel primo caso ha affermato la Corte deve applicarsi l’art. 1414 primo comma cod. civ. secondo cui il contratto simulato non produce effetto tra le parti; negli altri due casi deve applicarsi l’art. 1362 cod. civ. secondo cui deve farsi riferimento all’effettiva volontà delle parti e al comportamento da loro tenuto anche dopo la conclusione del contratto. Queste norme -ha osservato la Corte- impongono di qualificare il rapporto in base al contenuto effettivo delle prestazioni rese ed al concreto atteggiamento delle parti: plus valet quod agitur quam quod concipitur.