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Criteri di subordinazione in una comunità familiare

(Sentenza Cassazione Sez. Lavoro n° 14579 del 27 dicembre 1999)

Per negare che le prestazioni lavorative svolte nell'ambito di un gruppo parentale diano luogo a un rapporto di lavoro subordinato o di parasubordinazione occorre accertare l'esistenza di una partecipazione costante dei vari membri alla vita e agli interessi del gruppo, ossia uno stato di mutua solidarietà e assistenza, dovendo in difetto di ciò, specie quando le prestazioni lavorative siano svolte nell'ambito di un'attività professionale esercitata al di fuori della comunità familiare, escludersi l'ipotesi del lavoro gratuito, la cui presunzione peraltro non opera quando i soggetti non convivano sotto il medesimo tetto ma stiano in unità abitative autonome e distinte.

Nota

La pronuncia in questione si pone nell'ottica di quell'orientamento secondo cui ogni attività, compresa quella svolta all'interno della comunità familiare, può avere i connotati della subordinazione, sempre che ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma.

Nella specie, detti requisiti devono essere costituiti da una partecipazione alla vita della famiglia e, cioè, da uno stato di mutua solidarietà ed assistenza.

Secondo la Pretura di Roma (21.6.1996) la frequenza giornaliera e l'osservanza di un orario di lavoro fisso, non sono indicativi dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra un familiare e i titolari dell'impresa, se non costituiscano adempimento di uno specifico obbligo giuridico; la mancata necessità di giustificare le proprie assenze conferma l'esclusione dell'assoggettamento al potere direttivo, gerarchico e disciplinare dell'imprenditore.

Ancora la Pretura di Roma (10.7.1996) ha precisato che, la sussistenza di vincoli di coniugio o parentela, non è ostativa alla qualificazione del rapporto di lavoro in termini di subordinazione quando ne sussistano i requisiti; diversamente, al lavoro prestato dal familiare si applica il regime dell'impresa familiare ex articolo 230 bis del codice civile.

A tale ultimo riguardo ricordiamo che secondo la Suprema Corte (sentenza n° 7438 del 9.8.1997), l'istituto dell'impresa familiare ha natura residuale o suppletiva, in quanto è diretto ad apprestare una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro che si svolgono nell'ambito degli aggregati familiari; consegue che tale istituto non può configurarsi nell'ipotesi in cui il rapporto fra i componenti della famiglia sia riconducibile ad uno specifico rapporto giuridico, quale quello del rapporto di lavoro subordinato.

Poi, secondo la Cassazione (sentenza n° 7378 del 9.8.1996), quando si sostiene l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra coniugi, la prova deve essere rigorosa e, pertanto, in difetto di puntuali riferimenti alle concrete modalità della prestazione lavorativa, la sussistenza del concetto di subordinazione va esclusa.

Da ultimo, la Pretura di Foggia (14.11.1997) ha chiarito che le prestazioni lavorative rese nell'ambito di una comunità familiare (anche di fatto) sottostanno alla presunzione di gratuità, dovendosi ritenere espletate al di fuori di qualsiasi incontro di volontà contrattuale e determinate da impulsi affettivi e dalla comunanza di interessi, che escludono il carattere oneroso del rapporto. Detta presunzione sussiste allorquando vi sia comunanza di tetto e di mensa, soddisfacimento in comune di altre esigenze familiari, solidarietà affettive e mutua assistenza, presunzione superabile solo da rigorosa prova contraria dei requisiti della subordinazione il cui onere incombe su chi la allega.