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Sentenza Corte di Cassazione n° 13861 del 19 ottobre 2000

IL DIRITTO DELLA MOGLIE AGLI UTILI DELL’IMPRESA FAMILIARE, PER LA COLLABORAZIONE DA LEI PRESTATA, DEVE ESSERE RICONOSCIUTO ANCHE QUANDO L’ATTIVITA’ DEL MARITO E’ STATA SVOLTA NELL’AMBITO DI UNA SOCIETA’ DI FATTO, anche se ciò non è espressamente previsto dall’art. 230 bis del codice civile (Sezione Lavoro, Pres. Dell’Anno, Rel. De Matteis).


I fratelli Settimio C. e Bernardo C. hanno costituito, per lo svolgimento della loro attività imprenditoriale, una società di fatto, provvedendo successivamente a registrarla.
Maddalena B., moglie di Bernardo C., avendo collaborato con il marito, ha promosso nei confronti dei due fratelli, davanti al Pretore di Macerata, un’azione giudiziaria in base all’art. 230 bis cod. civ., che riconosce al coniuge che abbia prestato in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia e nell’impresa familiare il diritto di partecipare agli utili e di ottenere la liquidazione della sua quota in caso di cessazione della prestazione.
Maddalena B. ha sostenuto di aver partecipato ad un’impresa familiare fra essa stessa e la società di fatto esistente tra i fratelli Bernardo e Settimio C. ed ha indicato in lire 260 milioni l’importo della liquidazione dovutale.
Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Macerata, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento.
Il Tribunale, pur dando atto che Maddalena B. aveva in qualche modo contribuito all’attività imprenditoriale esercitata dai fratelli Bernardo e Settimio C., ha escluso la configurabilità di un’impresa familiare, per l’esistenza, fra i due fratelli, di una società.
Il Tribunale ha affermato che l’art. 230 bis cod. civ. fa chiaramente riferimento a rapporti di coniugio e di parentela, che possono intercorrere solo con l’imprenditore persona fisica ma non con una società.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13861 del 19 ottobre 2000, Pres. Dell’Anno, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso proposto da Maddalena B. contro la sentenza del Tribunale di Macerata.
L’art. 230 bis cod. civ. – ha osservato la Corte – a coronamento delle nuove disposizioni sul regime patrimoniale della famiglia intende proteggere il lavoro in essa svolto, approntando una tutela minima a quelle forme di collaborazione che un tempo venivano ritenute prestazioni gratuite, fornite "causa affectionis vel benevolentiae".
Al fine di stabilire se l’art. 230 bis cod. civ. sia applicabile ai familiari del socio di una società di fatto – ha affermato la Corte – si deve tener presente la volontà del legislatore di incidere sull’assetto sociale esistente al tempo dell’intervento e di innovare l’ordinamento; pertanto, essendo chiara la volontà legislativa di rendere onerose forme di attività familiare prima ritenute gratuite, al fine di evitare lo sfruttamento dei familiari e soprattutto della donna, l’art. 230 bis cod. civ. deve essere interpretato nel senso che esso si applichi anche nel caso di collaborazione con il familiare socio di una società di fatto. Anche in questo caso infatti dalla collaborazione deriva una utilità che deve trovare contropartita.
La Cassazione ha peraltro ritenuto che la partecipazione del collaboratore familiare debba essere limitata alla quota sociale spettante al beneficiario di tale apporto.
La Corte ha pertanto cassato la decisione del Tribunale di Macerata, ed ha stabilito, per il giudizio di rinvio, il seguente principio di diritto: "I soggetti indicati dal comma 3 dell’art. 230 bis cod. civ. hanno diritto alla tutela prevista da tale norma ove svolgano attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa, sia esercitata in forma individuale sia esercitata come società di fatto, nei limiti della quota".