Torna a Massime e Sentenze

Sentenza Corte di Cassazione n° 11924 del 24 novembre 1998

Sezione lavoro

autonomo e subordinato - criteri distintivi - subordinazione - assoggettamento all'altrui potere direttivo - esercizio del potere direttivo "de die in diem" - ammissibilita` - sussiste


l'assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive - che costituisce il tratto tipico della subordinazione - e' riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore di lavoro viene esercitato "de die in diem", consistendo, in tal caso, il vincolo della subordinazione nell'accettazione - vuoi espressa (mediante la formale accettazione del rapporto di lavoro subordinato), vuoi per fatti concludenti - dell'esercizio del suddetto potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso.

(In base al suddetto principio la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato come subordinato il rapporto di lavoro di una fisioterapista le cui prestazioni - rese in un contesto e con le modalità tipiche del lavoro subordinato - venivano, giorno per giorno, specificate dal datore di lavoro attraverso la consegna di schede di lavoro recanti l'indicazione del paziente e del tipo di prestazione da eseguire).

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott.

Guglielmo

SCIARELLI

Presidente

Dott.

Fernando

LUPI

Consigliere

Dott.

Antonio

LAMORGESE

Consigliere

Dott.

Paolo

STILE

Consigliere

Dott.

Giovanni

AMOROSO

Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

SOCIETÀ 1 S.r.l., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLA BALDUINA 120, presso studio dell'avvocato B. D'A., che li rappresenta e difende, giusta delega in atti;

Ricorrente

contro

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI GRACCHI 137, presso lo studio dell'avvocato G.M., che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato E.G., giusta delega in atti;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 12508/95 del Tribunale di ROMA, depositata il 25/09/95 N.R.G. 26333/92;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/09/98 dal Consigliere Dott. Giovani AMOROSO;

udito l'Avvocato D'A.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni GIACALONE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso al Pretore di Roma, P.P. conveniva in giudizio la SOCIETÀ 1 allegando in punto di fatto di aver lavorato alle dipendenze della stessa dal 10 ottobre 1986 al 20 marzo 1989, data del suo licenziamento, svolgendo mansioni di fisioterapista; di aver osservato l'orario 8,30-12,30 per cinque giorni alla settimana, con un ritorno il sabato mattina per 4 ore o, in alternativa, un pomeriggio alla settimana, sempre per 4 ore; di aver sempre timbrato il cartellino di presenza; di aver effettuato le prestazioni sulla base delle schede predisposte dall'Ufficio amministrativo della società; di essere stata retribuita con la somma mensile di lire 600.000 sino al 15.10.87, di lire 650.000 sino al 30.6.88 e di lire 715.000 sino al 20.3.89; di essere stata licenziata durante lo stato di gravidanza, regolarmente comunicato alla società. Ciò premesso, chiedeva che il giudice adito, previo riconoscimento della natura subordinata dal rapporto di lavoro, dichiarasse la nullità dell'intimato licenziamento per violazione dell'art. 2 l. n. 1204 del 1971, con immediato ripristino del rapporto e con condanna della convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate dal 20.3.89, in ragione di lire 715.000 mensili, oltre accessori.

Chiedeva altresì la condanna della società al pagamento della somma complessiva di lire 3.126.999 a titolo di ferie non godute,13x mensilità e "premio ferie" ex art.60 del ccnl di categoria. Si costituiva la SOCIETÀ 1, che resisteva alla domanda deducendo che la P. aveva svolto attività libero professionale.

Con sentenza resa il 12 aprile 1991, il Pretore accoglieva tutte le richieste della P., ad eccezione di quella relativa al risarcimento per mancato godimento di ferie, ed accertava che il rapporto di lavoro subordinato era iniziato a decorrere dal 1x marzo 1987, anziché dal 10 ottobre 1986, come dedotto dalla ricorrente.

Avverso la predetta sentenza proponeva tempestivo appello la società deducendo, con unico articolato motivo, l'erronea valutazione della natura subordinata del rapporto.

Secondo l'appellante, una serie di elementi doveva indurre il Pretore a ritenere che l'attività svolta dalla P. fosse libero professionale: l'emissione di fatture, da parte della ricorrente, a fronte delle prestazioni rese; la variabilità dei compensi mensili; il fatto che la P. svolgesse attività anche presso altre società. Osservava poi che le direttive tecniche impartite dalla società non potevano assimilarsi a quelle di un datore di lavoro; che la timbratura del cartellino di presenza era motivata solo dalla necessità di un controllo sull'entità delle prestazioni ai fini del compenso; che non poteva considerarsi, di per sé, determinante il fatto che la P. utilizzasse le strutture della società per lo svolgimento del suo lavoro; che doveva essere maggiormente valorizzato il nomen iuris del rapporto.

Si costituiva l'appellata, resistendo al gravame, di cui chiedeva il rigetto.

Con sentenza del 25 settembre 1995 il Tribunale di Roma rigettava l'appello condannando l'appellante alla rifusione delle spese in favore della controparte.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la SOCIETÀ 1 S.r.l. con unico motivo impugnazione.

Resiste con controricorso la P..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con l'unico motivo di ricorso la SOCIETÀ 1 S.r.l. si duole dell'erronea interpretazione delle norme di legge sulle differenza fra lavoro autonomo e subordinato; nonché lamenta la contraddittorietà ed erroneità motivazione.

In particolare ribadisce che la P. era una libera professionista in fisioterapia e come tale era titolare della partita IVA ed emetteva fattura per le sue prestazioni professionali. Nella qualità di libera professionista la Pascucci aveva offerto ad una serie di società attività professionali di fisioterapista ricevendo il relativo compenso e rilasciando fatture quietanzate. La P. svolgeva attività professionali anche per conto di terzi (estranei alle società del gruppo) e in caso di mancata presenza non era tenuta a giustificarsi così come - al pari di qualsiasi altro professionista - non era tenuta a documentare lo stato di malattia. Gli importi relativi al corrispettivo ricevuto variavano mensilmente.

Inoltre l'elasticità dell'orario consentiva alla P. la fornitura di un maggiore o minore numero di prestazioni, ma mai di lasciare incompleta una terapia iniziata.

D'altra parte - rileva ancora la difesa della società - la timbratura del cartellino si rendeva necessaria solo al fine di accertare la quantità di prestazioni effettuate (atteso che le tariffe delle prestazioni fisioterapiche rimborsabili dalle USL variavano in rapporto ai tempi delle sedute); infatti le differenze emergenti nelle fatture esibite avevano evidenziato che la P. non effettuava prestazioni fisioterapiche costanti.

Infine la pronuncia viene altresì censurata perché nessun rilievo ha attribuito ad un elemento essenziale della controversia: quello relativo alla volontà formalmente espressa dalle parti all'atto della costituzione e nell'ambito del suo svolgimento.

2. Il ricorso è infondato.

2.1 La motivazione della pronuncia impugnata muove le mosse dal principio di diritto secondo cui, in tema di distinzione fra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato, qualora l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive - quale tratto tipico della subordinazione - non sia agevolmente apprezzabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento ad altri criteri, complementari e sussidiari (quali la collaborazione, continuità della prestazione, l'osservanza di un orario predeterminato, il versamento - a cadenze fisse - di una retribuzione prestabilita, il coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato all'impresa dal datore di lavoro, l'assenza - in capo al lavoratore - di una sia pur minima struttura imprenditoriale), i quali, se individualmente considerati, sono privi di valore decisivo, ben possono essere valutati globalmente come indizi probatori da parte del giudice del merito, principio affermato e ripetutamente ribadito da questa Corte sì da costituire diritto vivente sul punto (ex plurimis Cass., sez. lav., 6 novembre 1992, n° 12033).

Di tale principio - che questa Corte qui ulteriormente conferma - la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione tanto più che nella specie ha ritenuto sussistenti sia il requisito della subordinazione, come sopra inteso, sia gli elementi indiziari suddetti i quali pertanto hanno concorso e coonestare l'effettuata verifica della ricorrenza del primo. Se tali elementi possono addirittura supplire all'insufficiente riscontro in concreto dell'elemento della subordinazione, a maggior ragione essi possono concorrere a rafforzare l'idoneità di questo elemento a fondare la qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato.

È anzi questa l'ipotesi paradigmatica di accertamento di tale qualificazione. Da una parte il lavoratore è assoggettato al potere direttivo del datore di lavoro di conformazione della prestazione lavorativa, potere esercitabile finanche de die in diem (come in effetti è avvenuto nella specie, secondo la ricostruzione in fatto della sentenza impugnata), consistendo appunto il vincolo di subordinazione in questa accettazione - vuoi espressa (mediante la formale qualificazione del rapporto come di lavoro subordinato), vuoi per fatti concludenti - dell'esercizio di tale potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso. Ed infatti la sentenza impugnata ha accertato che competeva al datore di lavoro la programmazione - e quindi la specificazione in concreto - del lavoro della P., la quale, ricevendo giornalieramente le schede di lavoro, recanti l'indicazione del paziente e del tipo di prestazione da eseguire, poneva a disposizione del primo le proprie energie lavorative. D'altra parte la prestazione è stata resa in un contesto e con modalità tipiche del lavoro subordinato, quali - limitandosi alle specificità del caso in esame - l'osservanza di un orario di lavoro, la continuità e la regolarità della prestazione, lo svolgimento della stessa nei locali e con l'utilizzazione delle strutture dell'impresa.

Quindi la sentenza impugnata è immune dal vizio di cui all'art. 360 n. 3 c.p.c. sotto il profilo della denunciata erronea interpretazione di quelle che la difesa della società ricorrente menziona genericamente (ma non indica specificamente) come "norme di legge sulle differenza fra lavoro autonomo e subordinato" atteso che la corretta interpretazione dell'art. 2094 c.c. conduce a ritenere senz'altro il carattere subordinato del rapporto quando concorrono il requisito della subordinazione e quello degli elementi indiziari suddetti.

2.2. Né la sentenza impugnata è censurabile sotto il profilo del vizio di motivazione.

Va infatti rilevato - come già ritenuto da questa Corte - che il vizio di insufficiente motivazione di una sentenza sussiste allorché essa mostri, nel suo insieme, una obiettiva deficienza del criterio logico che ha condotto il giudice di merito alla formazione del proprio convincimento mentre il vizio di contraddittoria motivazione, anche esso denunziabile in cassazione, presuppone invece che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione della ratio decidendi, e cioè l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto alla base della decisione adottata; tali vizi non sussistono quando il giudice abbia semplicemente operato una valutazione delle risultanze istruttorie con conforme alle attese ed alle deduzioni della parte (ex plurimis: Cass. 2 febbraio 1996 n. 914; 23 luglio 1994 n. 6868; 7 gennaio 1983 n. 131). Né è ammissibile un sindacato sulla persuasività di tale valutazione ove sufficientemente e non contraddittoriamente motivata. Questa Corte ha infatti ripetutamente statuito che la denunzia del vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. non conferisce alla Corte stessa il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica - in relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio - le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta esclusivamente individuare le fonti del proprio convincimento, di esaminare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le tante: Cass. 27 ottobre 1995 n. 11154; 18 marzo 1995 n. 3205; 29 novembre 1986 n. 7054).

Nella specie la difesa della ricorrente chiede in sostanza di rinnovare la valutazione di fatto operata dalla sentenza impugnata, allegandone essenzialmente l'asserita non persuasività della sua motivazione, piuttosto che l'insufficienza o la contraddittorietà.

Ed invece la sentenza impugnata ha sufficientemente motivato in ordine ad entrambi i punti del principio di diritto di cui ha fatto applicazione.

La ritenuta insussistenza del denunciato vizio di motivazione della sentenza impugnata comporta il rigetto comporta il rigetto nel merito del motivo del ricorso.

Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente alle spese di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in lire 32.000 di cui lire tre milioni per onorari.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 1998.

IN CANCELLERIA, 24 NOV. 1998