Torna a Leggi

 

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

Direzione Provinciale del Lavoro di Modena

 

Analisi e primi chiarimenti del 13/10/2003 sul Decreto Legislativo n. 276/2003

 

E’ stato pubblicato sul S.O. n. 159 alla Gazzetta Ufficiale n. 235 del 9 ottobre 2003, il Decreto Legislativo n. 276 (rinvenibile sul nostro sito web), con il quale l’Esecutivo ha dato attuazione alla delega contenuta nella legge n. 30/2003.

Si tratta di un provvedimento che incide, profondamente, sull’attuale assetto del mercato del lavoro e per il quale ho ritenuto opportuno, in attesa delle delucidazioni che sicuramente perverranno dagli organi amministrativi sopra ordinati, fornire un primo approfondimento, anche in relazione a quella che è l’attività del nostro Ufficio.

Lo schema da me seguito nella trattazione ricalca i Titoli, i Capi e gli articoli (con l’indicazione esatta delle rubriche), in modo tale che ognuno di voi possa, nell’espletamento della propria attività e nell’interesse dell’utenza che chiede informazioni, facilmente orientarsi nell’articolato, estremamente complesso.

Ovviamente, nei prossimi giorni, affronteremo insieme, in alcune riunioni che andremo velocemente a “cadenzare”, tutte le problematiche che emergeranno.

Vale la pena di sottolineare come, a partire dal 24 ottobre 2003, data di entrata in vigore vengano meno:

a)   l’autorizzazione preventiva in materia di apprendistato (art. 85, comma 1, lettera b);

b)   l’invio del contratto a tempo parziale alla Direzione provinciale del Lavoro entro i trenta giorni successivi alla stipulazione (art. 85, comma 2);

c)    la legge n. 1369/1960 (art.85, comma 1, lettera c), ivi compresa l’ipotesi prevista dall’art. 5 sulla esclusione dalla solidarietà che doveva essere autorizzata preventivamente dalla Direzione provinciale del Lavoro;

d)   gli artt. 9 – bis, comma 3 e 9 – quater, commi 4 e 18, relativi ad alcune sanzioni sul collocamento  (art. 85, comma 1, lettera e);

e)   gli artt. da 1 a 11 della legge n. 196/1997: ciò significa la fine dell’obbligo dell’invio alla Direzione provinciale del Lavoro di copia del contratto (art. 1, comma 7) stipulato tra impresa interinale ed impresa utilizzatrice (art. 85, comma 1, lettera f);

f)     la possibilità di stipulare nuovi contratti di formazione e lavoro nel settore privato ed in quello degli Enti pubblici economici (art. 86, comma 9).

A partire dal 24 ottobre p.v. entrano, tra l’altro, in vigore le disposizioni relative alle nuove saoni penali ed amministrative (artt. 18 e 19), alla somministrazione, al distacco, ai gruppi d’impresa, al trasferimento di azienda, al lavoro intermittente (relativamente ai giovani fino a venticinque anni ed ai lavoratori ultraquarantacinquenni), al “job sharing”, alla modifiche sul contratto a tempo parziale, ai tirocini estivi di orientamento, al lavoro “a progetto”, al lavoro occasionale ed  alle prestazioni “gratuite” in agricoltura.

Altre disposizioni non entrano immediatamente in vigore in quanto necessitano di provvedimenti attuativi. Tra di essi vanno ricordate la disciplina generale sul lavoro intermittente, i contratti di inserimento, il nuovo apprendistato (nelle tre forme previste), le prestazioni di lavoro accessorio, le certificazioni. 

L’esposizione che segue ha, come obiettivo, quello di “focalizzare” alcune questioni e, se possibile, di risolvere qualche problema operativo, in attesa  dell’applicazione completa delle nuove disposizioni per le quali lo stesso impianto normativo prevede una certa gradualità che passa attraverso accordi collettivi e decretazioni ministeriali.

firmato

Il DIRETTORE

 

(Dr.Eufranio MASSI )

 

 

 

 

 

IL NUOVO MERCATO DEL LAVORO: PROBLEMI E PROSPETTIVE

 

Al di là di quelle che sono le proprie convinzioni giuridiche e politiche non si può non convenire che il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, pubblicato sul S.O. n. 159 alla Gazzetta Ufficiale n. 235 del 9 ottobre 2003, con il quale il Governo ha attuato le deleghe postulate dalla legge n. 30/2003 (in realtà nel testo definitivo manca quella sul riordino dell’attività ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali demandata ad separato provvedimento attuativo) cambia, profondamente, la struttura di buona parte degli istituti sui quali si è costruito il diritto del lavoro degli ultimi anni. Molte leggi che hanno fatto la “storia” lavorativa del nostro paese vanno in soffitta: ci si riferisce non solo a quelle esplicitamente abrogate come la n. 1369/1960 sul divieto di appalto di manodopera, ma anche ad altre disposizioni sull’apprendistato e sui contratti di formazione e lavoro, o sul monopolio pubblico del collocamento (già, peraltro, molto attenuato) che escono profondamente cambiate o cancellate. Nuovi istituti si affacciano nel nostro variegato campo del lavoro, nuovi soggetti sociali sono chiamati ad esprimersi, nuovi compiti sono destinati ad essere svolti da Enti (come le Università) che prima (ed anche adesso) sono deputati ad altre funzioni. Comunque sia, la riforma potrà essere valutata, a mio avviso, così come qualunque altro provvedimento, sulla base di alcuni elementi riconducibili alla capacità di interpretare le esigenze delle varie componenti del mercato (lavoratori, imprese) e del sistema economico inteso in senso lato, alla identificazione di un percorso migliore rispetto al precedente ed all’esame comparato con quanto avviene negli altri Paesi e, in particolar modo, in quelli dell’Unione Europea.

Nell’articolato per almeno una quarantina di volte le parti sociali sono chiamate a disciplinare la materia attraverso una serie di rinvii alla contrattazione ed, inoltre, molti altri provvedimenti sono il frutto di un ruolo centrale che viene riconosciuto alle Regioni ed alle Province autonome di Trento e Bolzano. A ciò va aggiunta una forte attività di decretazione del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (sono circa una trentina gli atti ipotizzati) alcune volte d’iniziativa ed altre in surroga all’inerzia delle parti sociali. Ciò, indubbiamente, sotto l’aspetto della produzione normativa è abbastanza faticoso ma la materia del lavoro, oltre ad essere oggetto di legislazione concorrente, abbisogna, necessariamente, del coinvolgimento delle parti sociali che, da sempre, hanno disciplinato, con i loro accordi, importanti materie.

Ciò che appare chiaro (al di là delle considerazioni per nulla univoche espresse dalle organizzazioni sindacali) è che attraverso tale sistema, già definito nel Libro Bianco di “dialogo sociale”, il Governo cerca di superare il sistema della concertazione. In sostanza, le parti sociali debbono raggiungere l’accordo su varie materie (ma la CGIL ha sottolineato il proprio disaccordo parlando di espropriazione sostanziale della contrattazione, rimasta, a suo dire, soltanto per aspetti marginali e non decisivi), riservandosi l’Esecutivo la possibilità di un intervento suppletivo attraverso l’emanazione di decreti attuativi, trascorso il termine assegnato per il raggiungimento dello stesso. E’ lo schema che è stato utilizzato per i contratti a termine con il D. L.vo n. 368/2001 ed è lo schema che è stato utilizzato nell’anno in corso con il D. L.vo n. 66/2003 sull’orario di lavoro. In tale ottica assume una particolare importanza il comma 13 dell’art. 86, attraverso il quale il titolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è tenuto a convocare le parti sociali entro i cinque giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento per verificare se ci sono gli spazi per affidare ad uno o più accordi interconfederali la messa a regime della riforma.

L’analisi che segue cercherà di evidenziare le novità, puntando a leggere i contenuti dei vari articoli in modo correlato con altre disposizioni già presenti nel nostro ordinamento e che con esse  si intersecano, tralasciando, per il taglio pratico ed operativo che si è voluto seguire, qualunque riflessione relativa a dubbi di costituzionalità e ad eccessi di delega (a mio avviso, superabili).

Il Decreto Legislativo n. 276/2003 è estremamente articolato e si compone di nove titoli e nell’esposizione che si va ad effettuare, si seguirà il metodo dell’esame secondo l’ordine nel quale gli stessi sono stati scritti.

 

 

TITOLO I

Disposizioni generali

 

 

ART. 1  Finalità e campo di applicazione

 

Con l’articolo 1 il Legislatore delegato fissa le finalità ed il campo di applicazione: si afferma che l’obiettivo principale è quello di dare attuazione ai principi ed ai criteri che hanno ispirato la legge n. 30/2003, seguendo gli orientamenti comunitari in materia di occupazione, intervenendo sui contratti a contenuto formativo ed introducendo forme di flessibilità finalizzate alla qualità ed alla stabilità del lavoro, nell’ottica delle esigenze delle imprese e delle aspirazioni dei lavoratori.

Si tratta di affermazioni di principio che vanno contestualizzate nell’ambito delle nuove figure ed tipologie contrattuali.

C’è, piuttosto, una prima riflessione da fare che scaturisce dal comma 2 dell’art. 1: delimitando il campo di applicazione si afferma che il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni ed il loro personale. Si tratta di una limitazione che viene dalla legge – delega ed esattamente dall’art. 6 e, quindi, coerentemente, il decreto legislativo non poteva non tenerne conto. Personalmente ritengo che la scelta, a suo tempo, operata dal Legislatore fosse, quantomeno, azzardata, in quanto la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro pubblico a quello privato avvenuta nell’ultimo decennio sia attraverso la legislazione che la contrattazione collettiva, subisce, sostanzialmente, un arresto. Con la legge n. 30 ed il successivo decreto legislativo, infatti, finiscono le “collaborazioni coordinate e continuative” (e sappiamo, quante ce ne sono presso gli Enti locali e le Università), viene modificato profondamente l’istituto del contratto a tempo parziale (e sappiamo, quanti rapporti di tal fatta esistono nel variegato panorama pubblico), viene rivista la normativa sulla somministrazione di manodopera (cosa che può interessare, parzialmente, la pubblica amministrazione), sono profondamente riviste le tipologie contrattuali formative, con la scomparsa dei contratti di formazione e lavoro (che restano, in via residuale, soltanto nella Pubblica Amministrazione).

A dir la verità, si è cercato di ovviare a tale lacuna normativa inserita nella legge n. 30, affermando all’art. 86, comma 8, del decreto legislativo che “ il Ministro per la funzione pubblica convoca le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti all’entrata in vigore del decreto legislativo entro sei mesi, anche ai fini della eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi in materia”. E’ auspicabile che ciò avvenga sollecitamente e si giunga ad un sostanziale recepimento (almeno per gli istituti  che interessano maggiormente) della normativa in essere nel settore privato. Non ha senso, infatti, tornare a vecchie divisioni per comparti, atteso che la progressiva assimilazione tra pubblico e privato ha anche portato sotto la competenza del giudice ordinario le controversie connesse al rapporto di lavoro.

L’ultimo comma dell’art. 1 contiene una norma di salvaguardia per le Regioni a Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e Bolzano: sono fatte salve le competenze riconosciute dallo Statuto e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento alle disposizioni contenute nel Titolo V, parte seconda, della nostra Costituzione, laddove sono previste forme di autonomie più ampie rispetto a quelle già attribuite.

 

ART. 2  Definizioni

 

Come già avvenuto in altri provvedimenti delegati, anche recenti, vengono fornite delle definizioni relative agli istituti ed ai soggetti richiamati nel testo. A ciò provvede, in questo caso l’art. 2:

a)                 “somministrazione di lavoro”: con tale definizione si intende sia la fornitura di manodopera a tempo indeterminato che a tempo determinato, con le modalità definite dall’art. 20;

b)                 “intermediazione”: la definizione che ne è data è estremamente ampia e tale da ricomprendere non soltanto l’ordinaria mediazione tra domanda ed offerta di lavoro, ma anche l’inserimento dei soggetti disabili e di quelli di difficile inserimento (soggetti espulsi dai processi produttivi in età avanzata, casi particolari di disagio sociale, ecc). In tale definizione rientra anche la raccolta dei “curricula”, la preselezione e la costituzione di banche – dati, la promozione e la gestione dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, la possibilità di effettuare, su richiesta del committente, le comunicazioni di assunzione a seguito dell’avvenuta attività di intermediazione, la progettazione e l’erogazione di attività formative finalizzate all’adeguamento delle competenze e delle capacità dei lavoratori per un loro fattivo inserimento. Il riferimento operato ai lavoratori operatori di handicap non significa, a mio avviso, che i soggetti autorizzati si aggiungono alle Province ed ai centri per l’impiego nella gestione delle liste della legge n. 68/1999 e delle altre disposizioni ad essa correlate (es. avviamenti numerici, convenzioni, ecc.), ma vuol dire soltanto che gli stessi possono, su incarico del committente, reperire sul mercato e selezionare i disabili nell’ambito della quota nominativa riservata;

c)                 “ricerca e selezione di personale”: la frase adoperata ed il significato datole dal Legislatore delegato è, per così dire, onnicomprensiva. Essa è l’attività di consulenza finalizzata alla soluzione del problema del committente e ad individuare le candidature idonee a soddisfare le esigenze dello stesso. La ricerca e selezione del personale si concretizza nell’analisi del contesto organizzativo del “cliente”, nella individuazione delle sue esigenze, nella definizione dei profili professionali e delle capacità del “candidato ideale”, nella pianificazione e nella realizzazione del programma di ricerca, nella valutazione delle candidature, nella formazione di “rose” di candidati da sottoporre alla valutazione finale del committente, nella progettazione e nella erogazione di attività formative finalizzate a facilitare l’inserimento nell’organizzazione aziendale, nella assistenza nella fase di inserimento e nella verifica delle potenzialità;

d)                 “supporto alla ricollocazione professionale”: è tale l’attività svolta su incarico di un’impresa committente (anche a seguito di accordi sindacali) propedeutica alla ricollocazione sul mercato dei lavoratori “eccedentari”, attraverso la preparazione, la formazione e l’affiancamento finalizzato all’inserimento nella nuova attività;

e)                 “autorizzazione”: è il provvedimento attraverso il quale il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali abilita gli operatori pubblici (ma tra essi, chiaramente, non vi sono le Province ed i centri per l’impiego che esercitano tale attività ex D. L.vo n. 469/1997) e privati denominati “agenzie per il lavoro”, ad esercitare le attività di  somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale;

f)                   “accreditamento”: è il provvedimento con il quale le singole Regioni riconoscono sia agli operatori pubblici che a quelli privati la possibilità di erogare i servizi per il lavoro nell’ambito del proprio territorio, cosa che può comportare anche l’utilizzo di risorse pubbliche e la partecipazione attiva all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, con l’utilizzazione della rete informatica. Tale definizione va, a mio avviso, messa in correlazione con l’art. 1, comma 2, lettera g) del D. L.vo n. 297/2002 con il quale è stata fornita la definizione di “servizi competenti” ai fini dei soggetti che operano sul mercato del lavoro: lì si faceva riferimento ai centri per l’impiego ed agli altri organismi autorizzati o accreditati a svolgere le funzioni, “in conformità delle norme regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano”;

g)                 “borsa continua del lavoro”: è la definizione di un sistema aperto che, in coerenza con i principi comunitari e nell’ottica della trasparenza del mercato del lavoro, dovrebbe consentire a tutti coloro che sono interessati (non solo disoccupati, ma anche lavoratori subordinati od autonomi che cercano una nuova e diversa occupazione) a dialogare e ad incontrarsi con i soggetti pubblici e privati che operano nel “collocamento” nonché con i datori di lavoro; 

h)                 “enti bilaterali”: sono gli enti costituiti su base contrattuale dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative. Ad essi il nuovo provvedimento affida compiti ulteriori che vanno ad aggiungersi a quelli che nei vari contratti collettivi già svolgono (si pensi, ad esempio, alla certificazione di conformità al CCNL del rapporto di apprendistato nel commercio, o alla conciliazione delle controversie individuali di lavoro, o all’arbitrato alternativo al giudizio ex artt. 412 –ter e 412 –quater c.p.c.). La possibilità di effettuare l’intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro, la programmazione delle attività formative e la determinazione della formazione professionale in azienda, la promozione di attività finalizzate all’inserimento dei soggetti svantaggiati, la gestione mutualistica dei fondi per la formazione l’integrazione del reddito, la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità contributiva e lo sviluppo di azioni concernenti la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, sono i nuovi compiti individuati sui quali mi soffermerò allorché si affronteranno gli specifici argomenti e che tendono a trasformare, in partecipativo, il ruolo un tempo, prevalentemente, antagonistico del sindacato. A conferma del ruolo di gestione partecipata è opportuno sottolineare anche la frase finale con cui si conclude la definizione: essa è, per così dire, aperta nel senso che si lascia socchiusa la porta per l’attribuzione di altre attività o funzioni che, in futuro, potranno loro essere assegnati sia dalle leggi che dalla contrattazione collettiva (ed il pensiero corre al comma 13 dell’art. 86 con il quale si prefigura una gestione della “messa a regime” del decreto attraverso accordi interconfederali e rinvii alla pattuizione collettiva);

i)                   “libretto formativo”: con tale definizione viene identificato un nuovo documento che dovrà essere istituito, sulla base dell’accordo Stato – Regioni del 18 febbraio 2000, con un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali emanato “di concerto” con quello dell’Istruzione, al termine di un iter procedimentale che prevede la consultazione delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative e l’intesa con la conferenza Stato – Regioni. Sul libretto andranno registrate le competenze acquisite durante la formazione in apprendistato (tale tipologia, come si vedrà successivamente, cambia radicalmente), la formazione in contratto di inserimento (nuova tipologia destinata a facilitare l’ingresso nel mondo produttivo dei soggetti “più difficili”), la formazione specialistica e quella continua svolta durante tutta la vita lavorativa ed effettuata da soggetti accreditati dalle Regioni, le competenze acquisite in modo non formale secondo gli indirizzi dell’Unione Europea in materia di apprendimento permanente, purchè riconosciute e certificate;

j)                    “lavoratore”: la identificazione, ovvia, è quella con chi già lavora o con chi è alla ricerca di un lavoro;

k)                 “lavoratore svantaggiato”: con tale definizione ci si riferisce alle persone che hanno difficoltà ad entrare sul mercato del lavoro, senza assistenza (es tossicodipendenti, alcoolisti, soggetti con scarsa professionalità o di età avanzata espulsi dai processi produttivi, ecc.). Per la ulteriore identificazione la norma rinvia all’art. 2, lettera f, del Regolamento n. 2204/2002 della Commissione del 12 dicembre 2002 relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato in favore dell’occupazione;

l)                    “divisioni operative”: si tratta di soggetti aventi più funzioni gestiti con strumenti di contabilità analitica in maniera tale da consentite, in ogni momento, di conoscere i dati economici della gestione relativa ad ogni attività. Tale definizione è richiamata, soprattutto, all’art. 5 ove si parla dei requisiti giuridici e finanziari dei soggetti destinati ad operare sul mercato del lavoro;

m)               “associazioni di datori e prestatori di lavoro”: nella accezione adoperata in questo provvedimento ci si riferisce ad organizzazioni datoriali e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sia a livello nazionale che, quando è richiamato, a livello territoriale. Il concetto di associazioni maggiormente rappresentative, già superato fin dalla metà degli anni novanta, attraverso la cd. "comparazione", è confermato (alla base c’è un discorso di effettiva “forza contrattuale” in rapporto al criterio, indefinito, della maggiore rappresentanza);

 

 

 

 

 

 

 

 

TITOLO II

Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro

 

 

ART. 3  Finalità

 

L’obiettivo che si pone l’Esecutivo, dando attuazione alla delega, è quello di realizzare un sistema efficace,  coerente e trasparente finalizzato a migliorare le possibilità di accesso al lavoro dei disoccupati, di chi è alla ricerca della prima occupazione e di chi, appartenendo alle c.d. “fasce deboli” ha notevoli difficoltà di inserimento.

Per far ciò si afferma che accanto alle Province a cui restano affidate le funzioni amministrative del “collocamento” attribuite con il D. L.vo n. 469/1997 debbono essere individuati e, in alcuni casi, meglio precisati alcuni compiti, modalità, principi e funzioni che possono, così, sintetizzarsi:

a)                 viene identificato un unico regime autorizzatorio per tutti i soggetti che intendono operare sul mercato del lavoro sia per la somministrazione, che per l’intermediazione, che per la ricerca e selezione di personale che, infine, nell’ambito della ricollocazione professionale anche attraverso attività di sostegno;

b)                 vengono stabiliti i principi generali per la definizione dei c.d. “accreditamenti regionali” degli operatori pubblici e privati che intendono operare sul mercato del lavoro;

c)                 vengono identificate le forme di coordinamento e di raccordo tra gli operatori pubblici e privati per un miglior funzionamento del mercato del lavoro;

d)                 vengono stabiliti i principi per la realizzazione di una borsa continua del lavoro;

e)                 vengono abrogate tutte le disposizioni incompatibili e viene introdotto un nuovo regime sanzionatorio di cui si parlerà diffusamente quando saranno esaminati gli articoli 18 e 19.

 

      ART. 4  Agenzie per il lavoro

 

Con l’art. 4 si entra nella definizione operativa e, per certi versi, burocratica del c.d “albo” cui debbono essere necessariamente iscritti tutti quei soggetti che hanno intenzione di operare sul mercato del lavoro. Esso è istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (probabilmente, presso la Divisione I della Direzione Generale per l’Impiego ove, in passato, hanno già fatto riferimento sia le società di lavoro temporaneo che i soggetti privati autorizzati alla mediazione ex D. L.vo n. 469/1997) ed è articolato in cinque sezioni, cosa che comporta la possibilità di chiedere di operare soltanto in un particolare segmento:

a)                 agenzie di somministrazione di lavoro abilitate a svolgere tutte le attività individuate dall’art. 20. L’iscrizione in tale sezione comporta automaticamente  l’inserimento anche in quelle ove vengono iscritte le agenzie di intermediazione, quelle che si occupano della ricerca e della selezione del personale e quelle che fanno da supporto alla ricollocazione professionale. Con tale iscrizione automatica viene risolto, da un punto di vista normativo, quanto già affrontato e definito in via amministrativa dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la nota n. 1/927/AG/8/1 del 14 settembre 2001 con  la quale si sostenne che la sfera di attività oggetto della procedura autorizzatoria di mediazione comprendeva tutte le fasi della sequela (raccolta dei “curricula”, preselezione, creazione di banche – dati, ricerca e selezione di personale, ricollocazione ed attività consulenziali) ;

b)                 agenzie di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato abilitate a svolgere esclusivamente una delle seguenti attività specifiche, sulle quali, peraltro, ci si soffermerà allorquando si affronteranno le problematiche sollevate dall’art. 20: facchinaggio e pulizia, servizi di vigilanza e custodia, consulenza ed assistenza nel settore informatico, progettazione e manutenzione di reti intranet ed extranet, sistemi informatici , caricamento dati, software applicativo, assistenza e cura delle persone, ristorazione e portineria, trasporto di persone, macchinari e merci, gestione di biblioteche, archivi, magazzini ed economato, consulenza direzionale, programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamento, gestione, ricerca e selezione del personale, marketing, analisi di mercato, organizzazione della rete commerciale, gestione di call – center, costruzioni edili all’interno degli stabilimenti, montaggio e smontaggio di impianti e macchinari, attività connesse alla fase di avvio degli impianti di nuove attività nelle c.d. “aree Obiettivo 1” previste dal Regolamento CE n. 1260/1999 del Consiglio del 21 giugno 1999, attività produttive riferite all’edilizia ed alla cantieristica navale che richiedano più fasi successive di lavorazione e l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell’impresa;   

c)                 agenzie di intermediazione. L’iscrizione in questa sezione comporta anche la possibilità di esercitare la ricerca e selezione di personale  e quella da fungere da supporto nella ricollocazione professionale dei lavoratori: di conseguenza, un’impresa autorizzata ad esercitare l’intermediazione è automaticamente iscritta a queste altre due sezioni. Anche in questo caso si è perfettamente in linea con il precedente indirizzo amministrativo citato alla lettera a);

d)                 agenzie di ricerca e selezione di personale. L’iscrizione in tale sezione è più delimitata in quanto i soggetti autorizzati devono limitare il proprio campo di attività soltanto a questo specifico oggetto, non essendo abilitati ad operare nel settore della intermediazione e della somministrazione;

e)                 agenzie di supporto alla ricollocazione professionale. Il campo di operatività di tali soggetti, seppur più specialistico, sembra ancora più piccolo, limitandosi alla ricerca di lavoro ed al successivo inserimento nelle realtà produttive di quei lavoratori espulsi dalla produzione o che risultino, in prospettiva, “eccedentari”. Ovviamente, tali agenzie potranno agire sulla base di incarichi ricevuti, potranno organizzare corsi di qualificazione professionale, potranno prevedere periodi di “stage” presso strutture specializzate, potranno, a certe condizioni, essere destinatari di finanziamenti pubblici.

Con il comma 2 il Legislatore delegato comincia ad affrontare i problemi connessi al rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività, mutuando alcune procedure già da tempo in uso nelle autorizzazioni delle società di lavoro temporaneo e dei soggetti privati autorizzati alla mediazione ex D. L.vo n. 469/1997.

Innanzitutto i tempi del procedimento: il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è tenuto a concludere l’iter entro i sessanta giorni successivi alla presentazione della domanda, dopo aver accertato la sussistenza dei requisiti giuridici, personali e finanziari dei quali si parlerà diffusamente trattando il successivo art. 5. Se il riscontro è stato positivo, l’agenzia richiedente è iscritta provvisoriamente all’albo nella sezione di appartenenza. La “provvisorietà” ha una durata biennale, nel senso che trascorso tale periodo ed a richiesta dell’agenzia interessata l’autorizzazione è trasformata, sempre entro i novanta giorni successivi, a tempo indeterminato, previa verifica del corretto andamento dell’attività svolta. Probabilmente, così come è già avvenuto per le imprese interinali, tale valutazione sarà susseguente agli accertamenti effettuati tramite le articolazioni periferiche del Ministero rappresentate dalle Direzioni provinciali del Lavoro.

Ma cosa succede se, trascorsi inutilmente i due o tre mesi fissati dalla norma sia per l’autorizzazione provvisoria che per quella definitiva, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali non si è pronunciato? Il Legislatore ha adottato il principio del silenzio – assenso, per cui l’istanza si intende, a tutti gli effetti, accolta. Ovviamente, a ciò dovrà conseguire l’iscrizione all’albo con la relativa attribuzione del numero progressivo, elementi necessari per poter operare.

Il comma 4 pone alcuni obblighi a carico delle agenzie autorizzate: qui, sostanzialmente, non c’è nulla di nuovo rispetto a quel che già avviene per le società di lavoro temporaneo. Le agenzie sono tenute a comunicare alla Direzione Generale che ha concesso l’autorizzazione gli spostamenti di sede, l’apertura di succursali e filiali, la cessazione di attività e qualunque altra notizia eventualmente richiesta. Analoga comunicazione va inviata sia alle Regioni che alle Province autonome ove esse operano ed anche nei confronti di queste ultime c’è l’obbligo di rispondere a tutte le informazioni richieste circa il funzionamento e l’agibilità.

Il comma 5 rinvia ad un decreto del titolare del Dicastero del Welfare la cui emanazione è prevista entro il 23 novembre 2003 (che sono i trenta giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento), la disciplina relativa alle modalità di presentazione delle istanze, i criteri per la verifica del corretto andamento dell’attività svolta (propedeutico alla trasformazione a tempo indeterminato dell’autorizzazione provvisoria), l’organizzazione ed il funzionamento dell’albo. Tale atto amministrativo riveste, a mio avviso, una notevole importanza anche perché dovrebbe contenere gli elementi per le eventuali verifiche ispettive, dopo il biennio, che potrebbero essere delegate a livello provinciale alle Direzioni del Lavoro.

L’articolo termina con una clausola di salvaguardia: l’autorizzazione non può essere oggetto di transazione commerciale. Questo significa che essa è, sostanzialmente, “tarata” sui soggetti richiedenti (che, effettivamente, debbono fornire le garanzie professionali, personali ed economiche) e che non può essere oggetto di vendita, di affitto, di “volturazione”, di franchising. La precisazione appare giusta in quanto è finalizzata a tenere al di fuori di una materia così delicata soggetti che potrebbero operare con pochi scrupoli.

Una riflessione si pone circa la natura dell’albo e la sua funzione: a mio avviso, essa assolve alla finalità di realizzare, attraverso la pubblicità – notizia, la maggiore trasparenza possibile in ordine ai momenti fondamentali delle imprese iscritte (costituzione, rappresentanza legale, organi deputati alle decisioni, modificazioni statutarie, ecc.).

 

ART. 5  Requisiti giuridici e finanziari

 

L’art. 5 individua i requisiti necessari per l’iscrizione all’albo, riprendendo alcuni concetti che già furono individuati nel 1997 dopo l’emanazione della legge n. 196.

Una caratteristica precisa di questa disposizione, almeno per quanto riguarda i requisiti finanziari, è rappresentata dal fatto che le garanzie risultano modulate sul tipo di attività autorizzata, nel senso che esse sono più pesanti per le agenzie di somministrazione e più leggere per quelle che si occupano di intermediazione, di selezione e ricerca di personale e di ricollocazione professionale.

I requisiti necessari sono:

a)                 la costituzione dell’agenzia in forma di società di capitali ovvero di cooperativa, italiana o di altro Stato membro della Comunità Europea. Per i soggetti che intendono operare nel campo della ricerca e della selezione di personale, nonché per quelli che intendono limitare la loro attività al supporto nella ricollocazione professionale è possibile anche la forma delle società di persone. Avendo presente quanto il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali affermò con i D.M. 3 settembre 1987, n. 381 e n. 382, nonché con la circolare esplicativa n. 141/1997, si potrebbe sostenere che nei confronti di tali società si applicano le norme del codice civile o quelle previste da leggi speciali, fatti salvi gli aspetti non diversamente disciplinati. Soprattutto, c’è il problema del regime della pubblicità legale degli atti che si realizza, secondo il codice civile, con la registrazione con le conseguenze sul piano giuridico della opponibilità ai terzi dei fatti riportati sul registro, della responsabilità anche in solido degli amministratori per la violazione dei propri doveri;

b)                 la sede legale o una sua dipendenza nel territorio dello Stato o di altro Stato membro dell’Unione Europea. Il regolamento n. 381/1997 prevedeva per le società di lavoro temporaneo comunitarie indicassero esattamente la sede nel nostro Paese come dipendenza da quella straniera, cosa che potrebbe essere stabilita anche nel nostro caso;

c)                 la disponibilità di uffici in locali idonei allo specifico uso ed adeguate esperienze professionali, riscontrabili in precedenti rapporti ed in titoli relativi ad esperienze nel settore delle relazioni industriali e nelle risorse umane: sarà il decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali che dovrà essere emanato entro i successivi trenta giorni dall’entrata in vigore del provvedimento, a specificare i requisiti minimi. Anche qui la norma parla di un iter procedimentale che vede coinvolte, a vario titolo, la conferenza Stato – Regioni (a cui si richiede un’intesa) e le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative che debbono essere consultate. Va ricordato che fu, a suo tempo, previsto, sia per le società di lavoro temporaneo (che dovevano essere presenti in almeno quattro Regioni, con almeno due dipendenti in ambito territoriale e quattro unità nella sede centrale,di cui almeno uno con esperienza professionale documentata nella gestione del personale, nei servizi per l’impiego, nelle relazioni sindacali o nella formazione professionale) che per le agenzie private di collocamento (art. 10 del D. L.vo n. 469/1997) un pacchetto di requisiti minimi;

d)                 in capo agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti muniti di rappresentanza e ai soci accomandatari. I requisiti richiesti sono del tutto identici a quelli che l’art. 10 del D. L.vo n. 469/1997 prevedeva per i soggetti che volevano ottenere l’autorizzazione ad esercitare la mediazione in materia di collocamento: assenza di condanne penali, anche non definitive, ivi comprese le sanzioni sostitutive di cui alla legge n. 689/1981, per delitti contro il patrimonio, la fede o l’economia pubblica, per il delitto previsto dall’art. 416 –bis del codice penale (associazione di tipo mafioso), o per delitti non colposi per i quali sia prevista una pena non inferiore nel massimo a tre anni, per delitti o contravvenzioni previsti da leggi dirette alla prevenzione degli infortuni sul lavoro o, in ogni caso, previsti da leggi in materia di lavoro o di previdenza sociale, nonché assenza di misure di prevenzione;

e)                 nel caso di soggetti polifunzionali che non hanno la caratteristica dell’oggetto esclusivo (l’esclusività, a suo tempo richiesta dalla legge n. 196/1997, alle società di lavoro temporaneo è ampiamente superata), presenza di distinte divisioni operative, gestite con contabilità analitica, atta a far conoscere i dati economico – gestionali specifici;

f)                   l’interconnessione con la borsa continua nazionale del lavoro disciplinata dall’art. 15, attraverso il raccordo con le strutture regionali e l’impegno ad inviare al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ogni informazione atta a migliorare l’efficacia del sistema  relativo al mercato del lavoro;

g)                 il rispetto delle disposizioni fissate all’art, 8 circa l’ambito di diffusione dei dati relativi al lavoratore  nell’ambito delle procedure di incontro tra domanda ed offerta di lavoro.

Se questi sono i requisiti personali e professionali richiesti non meno importanti sono quelli economici: il Legislatore delegato non ha adottato una misura uguale per tutti (cosa che sarebbe stata non giusta) ma ha differenziato secondo il tipo di attività richiesta.

Le agenzie di somministrazione, per poter operare in tutte le attività previste dall’art. 20 devono:

a)                 versare in garanzia un capitale non inferiore a 600.000 euro, oppure avere la disponibilità di 600.000 euro tra capitale versato e riserve indivisibili nel caso in cui l’agenzia sia stata costituita in forma cooperativa;

b)                 garantire che l’attività abbia una valenza nazionale e, comunque, interessi almeno quattro Regioni;

c)                 effettuare, a garanzia dei crediti dei crediti dei lavoratori impiegati e dei crediti contributivi nei confronti degli Istituti previdenziali, un deposito cauzionale, per i primi due anni, pari a 350.000 euro. Esso va fatto presso un Istituto di credito con sede o dipendenza in Italia o nell’ambito dell’Unione Europea. A partire dal terzo anno il deposito cauzionale viene sostituito da una fideiussione bancaria o assicurativa pari al 5% del fatturato, al netto dell’IVA, e, comunque, non inferiore a 350.000 euro. La disposizione si preoccupa altresì delle società europee che vengono ad operare in Italia: esse sono esonerate dalla prestazione delle garanzie appena citate nel caso in cui abbiano già assolto ad analoghi obblighi previsti dalla legislazione in essere in un altro Stato dell’Unione Europea;

d)                 garantire la regolare contribuzione ai fondi per la formazione e l’integrazione del reddito disciplinati dall’art. 12, il versamento degli oneri previdenziali ed assistenziali alle scadenze previste ed il rispetto degli obblighi derivanti dal contratto collettivo di lavoro applicabile alle imprese di somministrazione;

e)                 garantire, nel caso di cooperative di produzione e lavoro, la presenza di almeno sessanta soci e tra di essi, come socio sovventore, almeno un fondo mutualistico per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, previsto dagli articoli 11 e 12 della legge n. 59/1992. Il riferimento operato dal Legislatore delegato al socio “tout court” prescinde, a mio avviso, dalla ulteriore qualifica del rapporto associativo previsto dal regolamento interno emanato ex lege n. 142/2001 (subordinato, autonomo, in partecipazione od in qualsiasi altra forma) con la conseguenza che il riferimento è puramente numerico e non riferito alla tipologia lavorativa;

f)                   indicare la somministrazione di lavoro quale oggetto sociale prevalente, anche se non esclusivo.

Per le imprese che chiedono di essere autorizzate alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato per le attività comprese all’art. 20 dalle lettere a) ad h) , oltre ai requisiti personali e professionali sono richiesti:

a)                 un capitale versato non inferiore a 350.000 euro, oppure la disponibilità di 350.000 euro tra capitale sociale versato e riserve indivisibili qualora ci si trovi di fronte ad una agenzia costituita in forma cooperativa;

b)                 una garanzia sui crediti vantati dai lavoratori impiegati e sui contributi spettanti agli Enti previdenziali, attraverso un deposito cauzionale pari ad almeno 200.000 euro presso un Istituto di credito con sede  o dipendenza in Italia o in uno Stato membro della Comunità Europea. A decorrere dal terzo anno, in luogo della cauzione una fideiussione bancaria od assicurativa non inferiore al 5% del fatturato, al netto dell’IVA, e, comunque, non inferiore a 200.000 euro. Anche in questo caso, come in quello esaminato in precedenza, sono esonerate dalla prestazione delle garanzie quelle imprese che abbiano già assolto ad analoghi obblighi previsti dalla legislazione di un altro Paese dell’Unione Europea;

c)                 la regolare contribuzione ai fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, disciplinati dall’art. 12, il regolare versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali ed il rispetto degli obblighi scaturenti dal contratto collettivo nazionale applicabile alle imprese di somministrazione;

d)                 nel caso di cooperative di produzione e lavoro, la presenza di almeno venti soci e tra di essi, come socio sovventore, di almeno un fondo mutualistico per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, previsto dagli articoli 11 e 12 della legge n. 59/1992.

Le imprese che, invece, intendono essere autorizzate per l’attività di intermediazione, fermi restando i requisiti personali e professionali previsti anche per le altre attività sono tenute a:

a)                 versare un capitale non inferiore a 50.000 euro;

b)                 garantire che l’attività si svolga sul territorio nazionale ed interessi almeno quattro Regioni;

c)                 indicare l’attività di intermediazione quale oggetto  sociale prevalente, pur se non esclusivo.

Per l’esercizio della sola attività di ricerca e selezione del personale  e per quella di supporto alla ricollocazione professionale sono, invece, richiesti, oltre ad i soliti requisiti personali:

a)                 almeno 25.000 euro di capitale versato;

b)                  l’indicazione che la stessa deve essere svolta in modo prevalente, seppur non esclusivo.

Qualche riflessione si rende necessaria.

Alcune di queste attività, come quelle svolte dalle agenzie di somministrazione di lavoro abilitate a svolgere tutte le attività previste dall’art. 20 o come quelle poste in essere dalle agenzie di intermediazione, postulano una diffusione strutturale sul territorio nazionale, con presenza in almeno quattro Regioni, cosa che non è richiesta alle agenzie che operano in altre attività (somministrazione di lavoro a tempo indeterminato per una delle attività comprese tra le lettere a) ed h) del comma 3 dell’art. 20, ricerca e selezione di personale, supporto alla ricollocazione professionale).

Le agenzie che si occupano direttamente di somministrazione di lavoro sono tenute al deposito cauzionale prima ed alla fideiussione bancaria od assicurativa a partire dal terzo anno (sia pure di importo diverso), cosa che non è richiesta alle agenzie che si occupano di intermediazione, ricerca e selezione e sostegno alla ricollocazione, per le quali, da un punto di vista economico, è sufficiente il versamento di un capitale, sia pure di importo  ben diverso.

Tutte le agenzie che operano, a vario titolo, sul mercato del lavoro possono esercitare  anche altre attività sia pure in maniera non prevalente, ad eccezione (stando almeno al tenore letterale della disposizione) di quelle che si occupano della somministrazione per le attività specifiche comprese tra la lettera a) e la lettera h) dell’art. 20.

Ma cosa succede nella fase transitoria dal vecchio al nuovo regime, atteso che l’art. 85 lettera f) abroga gli articoli da 1 ad 11 della legge n. 196/1997?

La soluzione si trova al comma 6 dell’art. 86 ove è disciplinata una fase transitoria. Le società di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, ricollocamento professionale già autorizzate con la vecchia disciplina, operano con una disciplina transitoria di raccordo definita con provvedimento del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali da emanarsi nei trenta giorni successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo. In attesa di esso restano, temporaneamente, in vigore le norme di leggi e regolamento che disciplinavano la materia antecedentemente.

A ciò si deve aggiungere (perché, da un punto di vista operativo ciò interessa moltissimo le società di lavoro di lavoro temporaneo) che il comma 3 dell’art. 86 afferma che in relazione agli effetti derivanti dalla abrogazione delle disposizioni che nella legge n. 196/1997 disciplinavano il lavoro interinale, le clausole dei contratti collettivi vigenti mantengono, salvo diverse intese, la loro efficacia fino alla data di scadenza, con esclusivo riferimento alle causali che consentono la somministrazione del lavoro a termine. Le clausole dei contratti collettivi stipulate in agricoltura ed in edilizia (perché questo è il significato del riferimento all’art. 1, comma 3, della legge n. 196/1997) rimangono in vigore fino a diversa determinazione delle parti stipulanti o recesso unilaterale.

 

ART. 6  Regimi particolari di autorizzazione

 

Se gli articoli 4 e 5 si sono occupati abbastanza minuziosamente delle procedure di accredito dei soggetti privati destinati ad operare sul mercato del lavoro, l’art. 6 traccia, invece, l’iter che debbono seguire altri soggetti (che si potrebbero definire con un brutto termine “para – pubblici”) ai quali la legge n. 30/2003 consente di attivarsi. Possono svolgere attività di intermediazione gli Enti locali (evidentemente, si tratta di coloro che, a vario titolo, non sono destinatari del D. L.vo n. 469/1997 che ha delegato i compiti amministrativi dell’impiego alle Regioni ed alle Province), le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie, gli Istituti di scuola secondaria di secondo grado, statali e parificati e le Camere di Commercio. La condizione è che operino senza fine di lucro, che abbiano strutture e professionalità idonee, che garantiscano l’interconnessione alla borsa continua nazionale e che inviino ogni informazione relativa al funzionamento del mercato del lavoro, così come previsto dall’art. 17. Per quel che riguarda le Fondazioni universitarie il Legislatore delegato ha fatto riferimento all’alta formazione come oggetto e con una attenzione specifica alle problematiche del mercato del lavoro.

Par di capire, dalla dizione adoperata che è l’assenza del lucro che li esonera dalle procedure di autorizzazione (per cui, se si ipotizzasse un guadagno potrebbero operare  soltanto dopo l’iscrizione all’albo).

Lo svolgimento dell’attività di intermediazione a favore dei propri associati è prevista anche per le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative e che siano firmatarie di contratti nazionali di lavoro, per le associazioni in possesso del riconoscimento istituzionale di rilevanza nazionale con oggetto sociale riferito alla tutela ed all’assistenza di attività imprenditoriali, del lavoro e della disabilità e per gli Enti bilaterali (la cui definizione è stata fornita alla lettera h dell’art. 2). Ciò che chiede la norma è il rispetto di alcuni requisiti già individuati, in via generale, dall’art. 5, comma 1, alle lettere c, d, e, f, g e sintetizzabili nella disponibilità di locali idonei, di adeguate competenze professionali, di assenza di alcuni precedenti di natura penale, di divisione operativa distinta nel caso di soggetti polifunzionali, nell’impegno alla interconnessione con la borsa continua del lavoro e nel rispetto della “privacy” sui dati del lavoratore.

I commi 4 e 5 dell’art. 6 riguardano i consulenti del lavoro. L’ordine nazionale può chiedere l’iscrizione all’albo previsto dall’art. 4 di una Fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di propria personalità, costituito nell’ambito del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro per lo svolgimento a livello nazionale di attività di intermediazione. Anche in questo caso non  sono richieste garanzie di natura economica ma personali e professionali (disponibilità di locali idonei, adeguate competenze professionali, assenza di precedenti penali di un certo tipo a carico dei responsabili o degli amministratori, contabilità operativa distinta se il soggetto giuridico costituito svolge più attività, interconnessione con la banca continua del lavoro, rispetto della “privacy” dei lavoratori). La forma operativa appena indicata è, per così dire, vincolante,nel senso che l’attività di intermediazione può essere svolta soltanto dal soggetto giuridico costituito e non dai singoli consulenti in maniera individuale.

La disposizione solleva il problema relativo al fatto se altri professionisti, abilitati a svolgere “ex lege” n. 12/1979 l’attività (commercialisti, avvocati, ecc.) possano, attraverso i loro ordini, costituire soggetti giuridici analoghi a quelli ipotizzati per i consulenti del lavoro. La risposta, a mio avviso, è negativa il quanto il Legislatore delegato ha fatto esclusivo riferimento all’ordine nazionale dei Consulenti del Lavoro ed, inoltre, il fatto che possano esercitare (perché la legge glielo consente) la medesima attività professionale, non significa che il loro ordine (che da un punto di vista identificativo non è un soggetto singolo) possa costituire, ad esempio, una Fondazione per esercitare l’attività di mediazione. Spazi per una interpretazione diversa, tuttavia, potrebbero, in futuro, trovarsi alla luce di un ordine del giorno presentato, a suo tempo, in Parlamento (0/848 – B 72711) che impegna il Governo a intendere il riferimento contenuto nella legge n. 30/2003 “a puro titolo esemplificativo” di tutti i professionisti cui fa riferimento la legge n. 12/1979.

Per completezza di informazione va ricordato che il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha deliberato il 19 settembre 2003 di dar luogo ad una Fondazione il cui unico socio fondatore e gestore sarà lo stesso Ordine Nazionale. La gestione “politica”  spetterà ai consiglieri nazionali, mentre quella più squisitamente “tecnica e operativa” sarà affidata ad esterni per offrire alla stessa una impronta il più manageriale possibile. Il coinvolgimento dei consigli provinciali dovrebbe essere affidato ad un Comitato consultivo.

Il comma 6 concerne le ipotesi per le quali società di intermediazione, di ricerca e selezione di personale o di supporto alla ricollocazione professionale operino soltanto in un solo contesto territoriale. In questo caso l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività può essere concessa dalle Regioni e dalle Province autonome ed ha valore soltanto per il loro territorio: ovviamente, vanno accertati tutti i requisiti di cui si è parlato agli articoli 4 e 5 ad eccezione di quello concernente la garanzia che l’attività interessa un ambito distribuito sull’intero territorio nazionale e comunque non inferiore a quattro Regioni.

I successivi commi 7 ed 8 disciplinano l’iter di concessione dell’autorizzazione provvisoria da parte degli Enti locali appena nominati. Essa va rilasciata entro sessanta giorni dall’istanza e deve essere accompagnata da una comunicazione contestuale al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (probabilmente, alla Direzione Generale per l’Impiego) per l’iscrizione in un’apposita sezione regionale dell’albo. Anche in questo caso l’autorizzazione definitiva all’esercizio a tempo indeterminato è rilasciata dopo un biennio, previa verifica del corretto andamento dell’attività svolta. Le modalità di costituzione della sezione regionale dell’albo sono demandate ad un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali da emanarsi entro i trenta giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento, previa intesa con la conferenza unificata Stato – Regioni.

Una breve riflessione si rende necessaria anche in questo caso.

Pur se non è detto esplicitamente, ritengo che anche a tale tipo di autorizzazione si applichi il divieto di qualunque transazione commerciale, previsto per le autorizzazioni ministeriali dall’art. 4, comma 7: tale asserzione discende, a mio avviso, dalla constatazione che si tratta di provvedimenti di analogo contenuto rilasciati da soggetti diversi, nel rispetto delle competenze delineate dall’art. 117 della Costituzione.

 

ART. 7  Accreditamenti

 

Con l’art. 7 vengono in prima linea le Regioni, cui l’art. 117 della Costituzione riconosce un ruolo primario nella materia delle politiche del lavoro.

Se lo Stato, in via generale, autorizza, le Regioni, dopo aver consultato le organizzazioni sindacali più rappresentative, accreditano i soggetti pubblici e privati che operano nel proprio territorio sulla base degli indirizzi generali da esse definiti ai sensi dell’art. 3 del D. L.vo n. 297/2002 ove si afferma che “le Regioni definiscono gli obiettivi e gli indirizzi operativi delle azioni che i servizi competenti (centri per l’impiego, ma anche gli altri organismi autorizzati od accreditati) effettuano alfine di favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro e contrastare la disoccupazione di lunga durata”. I principi ed i criteri da seguire si ravvisano:

a)                 nella garanzia che deve essere fornita ai cittadini della libera scelta, nell’ambito di una rete di operatori qualificati, adeguata per dimensione e distribuzione;

b)                 nella salvaguardia di standard omogenei a livello nazionale nell’affidamento di funzioni relative all’accertamento dello stato di disoccupazione ed al monitoraggio dei flussi;

c)                 nella costituzione negoziale di reti di servizio per l’ottimizzazione delle risorse;

d)                 nell’obbligo di interconnessione alla borsa continua nazionale del lavoro e dell’invio di ogni informazione strategica per il miglioramento del mercato del lavoro;

e)                 nel raccordo con il sistema regionale di accreditamento.

Ovviamente, i provvedimenti regionali dovranno individuare, altresì, sia le forme di cooperazione tra soggetti pubblici e privati (anche alla luce delle iniziative per combattere la disoccupazione di lunga durata e per il sostegno al reingresso nel mondo del lavoro dei soggetti espulsi dai processi produttivi, che i requisiti minimi per l’iscrizione negli elenchi regionali (riferiti anche alle capacità gestionali), che le procedure di accreditamento, che le modalità di erogazione dei servizi che, infine, le modalità relative alla tenuta dell’elenco ed il mantenimento dei requisiti.

La individuazione di due momenti successivi (autorizzazione ed accreditamento) previsti su due livelli diversi (nazionale e regionale) potrebbe portare ad una situazione di non omogeneità rispetto alla possibilità di operare. In sostanza, si potrebbe verificare che una impresa di somministrazione o di intermediazione sia stata autorizzata a livello nazionale ma non accreditata a livello regionale. Ciò è possibile, atteso che l’Ente locale ha una specifica funzione verificatrice dei requisiti richiesti a livello regionale anche in rapporto agli obiettivi ed indirizzi operativi stabiliti a livello locale in materia di politiche del lavoro ed al raccordo con il sistema pubblico regionale. 

  

ART. 8 Ambito di diffusione dei dati relativi all’incontro domanda – offerta di lavoro

 

L’art. 8 è, per così dire, programmatico nel senso che in esso vengono fissati alcuni principi legati alla diffusione dei dati dei lavoratori, nel rispetto di quanto previsto dalla legge n. 675/1976.

Innanzitutto, le agenzie di lavoro e gli operatori pubblici e privati autorizzati od accreditati devono assicurare ai lavoratori interessati il diritto di indicare i soggetti a cui devono essere inviati i dati e debbono garantirne l’effettiva diffusione nell’ambito indicato.

Per assicurare la concreta realizzazione di tale diritto il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali è tenuto ad emanare, entro il 23 dicembre 2003 e dopo aver consultato le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano ed il Garante per la protezione dei dati personali, un provvedimento con il quale vengono disciplinate le modalità di trattamento dei dati, tra cui spiccano per importanza:

a)                 le informazioni che possono essere comunicate e diffuse tra gli operatori che interagiscono sul mercato del lavoro;

b)                 le modalità attraverso le quali potrà essere assicurata al lavoratore una eventuale preferenza;

c)                 le ulteriori prescrizioni atte ad evitare trattamenti discriminatori, così come previsto dall’art. 10.

Ovviamente, nella fase ricognitiva e prima dell’emanazione del decreto ministeriale i problemi relativi alla diffusione dei dati dovranno essere visti anche alla luce del D. L.vo n. 196/2003 (c.d. “codice della privacy”) che entrerà pienamente in vigore a partire dal 1° gennaio 2004.

Il comma 3 dell’articolo 8 è destinato, in un certo senso, a superare taluni problemi operativi connessi al riconoscimento di benefici fiscali e previdenziali, cosa che per i datori di lavoro è divenuta più difficile dopo la fine delle liste di collocamento: la questione, da un punto di vista pratico, è stato affrontata dall’INPS con la circolare n. 117 del 30 giugno 2003, ma la soluzione adottata non è stata esaustiva. Ebbene, alla scheda anagrafico – professionale, già prevista dal DPR n. 442/2000, allorché contenga dati in possesso dei servizi per l’impiego, è attribuito un valore certificativo.

 

 

ART. 9 Comunicazioni a mezzo stampa, internet, televisione ed altri mezzi di informazione

 

Con l’art. 9 il D. L.vo n. 276/2003 cerca di porre un freno agli annunci fuorvianti dei soggetti che operano ai margini del mercato del lavoro con ipotesi, il più delle volte truffaldine.

Sono vietate le comunicazioni con qualsiasi mezzo effettuate relative ad attività di ricerca e selezione di personale, ricollocamento professionale, intermediazione e somministrazione effettuate in forma anonima e, comunque, da soggetti non autorizzati od accreditati ad operare nel campo della domanda ed offerta di lavoro, ad eccezione di quelle comunicazioni che facciano riferimento esplicito ad essi, o ad enti a loro collegati in quanto in un rapporto all’interno del gruppo di imprese in funzione di controllati o controllanti.

Per risolvere qualunque incertezza il comma 2 stabilisce che in tutte le comunicazioni nei confronti di terzi,ed anche per quelle a contenuto pubblicitario, nella corrispondenza, negli annunci, i soggetti autorizzati od accreditati sono tenuti ad indicare gli estremi del provvedimento di autorizzazione e di accreditamento. Ciò dovrebbe consentire a chiunque ne abbia interesse (e non soltanto al lavoratore interessato) di avere la piena cognizione del soggetto con cui sta trattando.

Qualora le comunicazioni avvengano attraverso la stampa o reti di comunicazione elettronica e non rechino il facsimile di domanda comprensiva dell’informativa prevista dall’art. 13 del D. L.vo n. 196/2003, va indicato il sito della rete di comunicazioni attraverso la quale il facsimile è conoscibile in modo agevole.

 Correlate a tali divieti  vi sono le sanzioni amministrative previste dall’art. 19, comma 1: gli editori, i direttori responsabili ed i gestori di siti sui quali vengano pubblicati annunci non conformi alle prescrizioni dell’art. 9, sono puniti con una sanzione amministrativa compresa tra 4.000 e 12.000 euro. 

 

 ART. 10 Divieto di indagini sulle opinioni e trattamenti discriminatori

 

Con l’art. 10 si pongono una serie di limiti all’eventuale potere discrezionale dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, limitatamente alle questioni personali relative a condizioni e convincimenti dei lavoratori (es. orientamenti politici e religiosi, sesso, ecc.).

C’è da sottolineare, innanzitutto, come essi non siano nuovi nel nostro ordinamento: basti pensare  ad alcune ipotesi di nullità del licenziamento che risalgono alla legge n. 604/1966. Va, poi, ricordato che esse riecheggiano il contenuto del D. L.vo n. 215/2003, con il quale l’Esecutivo ha dato attuazione alla Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

La disposizione afferma specificatamente che è fatto divieto alle agenzie per il lavoro e a tutti gli altri soggetti pubblici e privati autorizzati od accreditati di effettuare ogni indagine, o trattamento di dati o di preselezione, anche con il consenso degli interessati, sulle convinzioni personali, sull’affiliazione politica o sindacale, sul credo religioso, sul sesso e sull’orientamento sessuale, sullo stato matrimoniale, sulla famiglia e sulla gravidanza, sull’handicap e sull’età, sul gruppo linguistico, sull’etnia, sullo stato di salute e sui familiari, su eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro, fatto salvo che tali caratteristiche non incidano sulle caratteristiche dell’attività che si andrà a svolgere in maniera essenziale e determinante. Il divieto si estende al trattamento dei dati personali per questioni non strettamente attinenti all’inserimento lavorativo ed alle attitudini professionali.

La norma appena richiamata merita alcune riflessioni. La prima è che, sostanzialmente, essa ricalca, per certi aspetti, i contenuti dei decreti legislativi n. 215/2003 e n. 216/2003, anche per quel che concerne le ipotesi di “non discriminazione”, la seconda è che il divieto, il quale è assoluto, può trovare alcune specifiche eccezioni. Ad esempio, “divieto di indagini sull’handicap” può significare soltanto “divieto d’indagine sulla patologia” ma non sul requisito di per se stesso, accertato dalla commissione medica prevista dall’art. 1, comma 4, della legge n. 68/1999, magari utile per una proposta di avviamento nominativo richiesta da un’impresa cliente.

Il riferimento alle caratteristiche “essenziali e determinanti” che rappresentano un’eccezione al divieto generale, vanno valutate nel caso concreto (ad esempio, è difficile pensare ad un “sacrista” di religione islamica in una chiesa cattolica). Vale la pena di ricordare  che il provvedimento “contro la discriminazione” prevede all’articolo 4 una dettagliata disposizione per la tutela giurisdizionale dei diritti, che passa attraverso il tentativo di conciliazione obbligatoria secondo le procedure contrattuali o ex art. 410 c.p.c..

Il comma 2 dell’art. 10 conclude affermando che il divieto di indagini ed i trattamenti discriminatori non possono, in ogni caso, impedire ai soggetti che operano sul mercato del lavoro di porre in essere specifici servizi od azioni finalizzate ad assistere i lavoratori svantaggiati alla ricerca di un’occupazione.

 

ART. 11 Divieto di oneri in capo ai lavoratori

 

L’art. 11 ribadisce un concetto già presente nel nostro ordinamento sin dai tempi della legge n. 264/1949 e, poi, ribadito sia nella legge n. 196/1997 (per le società di lavoro interinale) che nel D. L.vo n. 469/1997 (per le agenzie private di collocamento): la gratuità del servizio per i lavoratori interessati. Essa, però, non è più assoluta come in passato: i contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative potranno fare alcune eccezioni per “specifiche categorie di lavoratori altamente specializzati” o per “specifici servizi” offerti.

L’eccezione, come si vede, è eventuale e, probabilmente, nel breve periodo non succederà nulla per “i lavoratori altamente specializzati”. Qualcosa, però, potrebbe accadere per i “servizi specifici” a pagamento ove, stando al tenore letterale della norma, non sembrerebbe richiesto l’accordo sindacale. Ovviamente, bisognerà intendersi su cosa il Legislatore delegato abbia voluto intendere con tale definizione.     

 

ART. 12 Fondi per la formazione e l’integrazione del reddito

 

L’art. 12 mutua dall’art. 5 della legge n. 196/1997, coma sostituito dall’art. 64, comma 1, lettera d) della legge n. 488/1999 l’idea del Fondo per la formazione e l’integrazione del reddito, ricalcandone, per ampia parte i contenuti.

I soggetti autorizzati alla somministrazione sono tenuti a versare ai fondi bilaterali costituiti, anche nell’Ente bilaterale, dalle parti che hanno stipulato il contratto collettivo, un contributo pari al 4% della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione. Queste risorse hanno uno scopo principale: esse sono destinate a promuovere per questi stessi lavoratori percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale per future nuove prospettive di lavoro ed a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale.

Analogo onere di versamento nella misura del 4% della retribuzione corrisposta c’è per i lavoratori assunti a tempo indeterminato ma le risorse hanno, almeno all’apparenza, una destinazione diversa. Esse dovranno servire per:

a)                 iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti a tempo indeterminato in caso di fine lavori;

b)                 iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto degli appalti illeciti;

c)                 iniziative per l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati anche in regime di accreditamento con le Regioni;

d)                 la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale.

Per la realizzazione di queste iniziative il comma 3 rimanda alla contrattazione collettiva di settore ed affida, in carenza di iniziative d’origine pattizia, al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’onere di provvedere dopo aver consultato le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Ma quali caratteristiche devono avere il fondo bilaterale?

Esse sono le medesime già previste per le società di lavoro interinale ed il testo riportato dai commi che vanno dal 4 all’8, ricalca pressoché fedelmente i commi dal 2 al 5 dell’art. 5 della legge n. 196/1997 dopo le modifiche intervenute nel 1999. Si è in presenza, quindi, un soggetto giuridico di natura associativa così come previsto dall’art. 36 c.c.(associazione non riconosciuta che può stare in giudizio attraverso il suo presidente o direttore) ed è dotato di personalità giuridica,  attraverso il procedimento per il riconoscimento attivato dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali “ex lege” n. 13/1991. Esso avviene a seguito di autorizzazione ministeriale, dopo che ne sono state verificate la congruità, le strutture di funzionamento e la capacità economico – finanziaria. La vigilanza sulla gestione dei fondi è riservata allo stesso dicastero del Welfare.

Ma cosa succede se un datore di lavoro non versa quanto dovuto al fondo?

In caso di omissione, anche parziale, dei contributi, il datore di lavoro è tenuto al pagamento oltre che degli stessi e delle relative sanzioni, anche di una sanzione amministrativa di importo pari a quello del contributo omesso.

L’ultimo comma dell’art. 12 esprime un aspetto programmatico: trascorsi dodici mesi dall’entrata in vigore del provvedimento (cioè dopo il prossimo 24 ottobre 2004), il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali può decidere, dopo aver consultato le parti sociali, di ridurre la percentuale contributiva in relazione alla congruità ed alle finalità del fondo.

 

ART. 13  Misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato

 

La disposizione che si va a commentare ha una valenza sperimentale, nel senso che, secondo quanto previsto dall’art. 86, comma 12, del decreto legislativo, trascorso un anno e mezzo dalla data di entrata in vigore, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali si riserva, dopo aver sentito le parti sociali, di riferirne in Parlamento per prospettarne una ulteriore vigenza.

Detto questo, vale la pena di sottolineare come la normativa sperimentale introdotta per favorire l’inserimento o il reinserimento dei lavoratori svantaggiati (la definizione è alla lettera k dell’art. 2) riprende ed aggiorna, almeno per quel che riguarda la cancellazione dalle liste di mobilità, quanto il Legislatore aveva detto nell’art. 9 della legge n. 223/1991.

Le agenzie autorizzate alla somministrazione di lavoro:

a)                 possono operare in deroga al regime generale della somministrazione di lavoro (e ciò glielo consente il comma 2 dell’art. 23), in presenza di un piano individuale di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, con interventi formativi e con il coinvolgimento di un “tutor” con professionalità adeguata, purchè assumano il soggetto svantaggiato per un periodo non inferiore a sei mesi. La deroga alla disciplina generale fa sì che allo stesso non si applichino tutte le modalità previste  in maniera precisa dal comma 1 dell’art. 23;

b)                 possono determinare, per un periodo massimo di dodici mesi e soltanto per contratti la cui durata è superiore a nove mesi, il trattamento retributivo del lavoratore, detraendo dal compenso dovuto ciò che il soggetto percepisce, a qualsiasi titolo dall’INPS (indennità di mobilità, indennità di disoccupazione ordinaria o speciale, o altra indennità o sussidio correlati allo stato di disoccupazione), e defalcando dalla contribuzione dovuta l’ammontare dei contributi figurativi qualora ci si trovi di fronte all’indennità di mobilità o a quella di disoccupazione speciale od ordinaria. Par di capire che se il contratto concluso con il lavoratore ha una certa durata la retribuzione erogata dal somministratore è soltanto sulla parte eccedente il trattamento previdenziale fino a concorrenza con il livello contrattuale di riferimento ed i contributi da versare sono al netto di quelli figurativi. Ci si trova di fronte ad istituti diversi, però la disposizione riecheggia quanto la legge n. 223/1991 offre, all’art. 8, al datore di lavoro che senza esservi tenuto assume a tempo pieno ed indeterminato lavoratori in mobilità (18 mesi di sgravi contributivi analoghi a quelli in uso per gli apprendisti ed il 50% della indennità di mobilità, se goduta, per un massimo di dodici mesi, aumentabili a ventiquattro o trentasei mesi in ragione dell’età e dell’ubicazione geografica).

Il lavoratore destinatario dell’attività di reinserimento decade dal trattamento di mobilità o dal sussidio o dall’indennità ordinaria o speciale goduta, qualora l’iscrizione sia finalizzata al solo reimpiego (questo significa che nella disposizione non dovrebbero rientrare i soggetti che sono, in virtù di accordi sindacali, nella c.d. “mobilità lunga” di accompagnamento alla pensione), se:

a)                 rifiuta di essere avviato ad un progetto individuale di reinserimento nel mercato del lavoro ovvero rifiuti di essere avviato ad un corso di formazione professionale autorizzato o non lo frequenti regolarmente, fatti salvi i casi di forza maggiore. Anche qui non c’è nulla di nuovo in quanto l’ipotesi è la stessa già contemplata dall’art. 9, comma 1, lettera a) della legge n. 223/1991. Indubbiamente, in caso di cancellazione si tratterà di valutare quale sia il numero di assenze, ad esempio, previste in caso di frequentazione di corsi o quali siano le cause di forza maggiore;

b)                 non accetta l’offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore al 20% rispetto a quello di provenienza. Qui c’è una leggera modifica rispetto al 10% che, con le stesse parole, diceva la lettera b) del comma 1 dell’art. 9. Rispetto a quella definizione sono scomparse le parole correlate alla “professionalità equivalente” anche con riferimento ai contratti collettivi di lavoro;

c)                 non ha provveduto a comunicare all’INPS, che ha in corso un’attività di lavoro subordinato od autonomo (è questo il riferimento all’art. 8, commi 4 e 5 della legge n. 160/1988 che stabilisce anche la decadenza dal trattamento integrativo). Par di capire (nelle legge n. 223/1991 si concedono al lavoratore cinque giorni per adempiere, cosa che qui non è prevista) che, prima dell’instaurazione del rapporto (c’è l’avverbio “preventivamente”) il lavoratore sia tenuto a comunicare tale suo nuovo “status” all’Ente erogatore. C’è da dire, peraltro, che per effetto della comunicazione contestuale di assunzione che tutti i datori di lavoro saranno tenuti ad effettuare, attraverso il c.d. “modello unificato” (quando esso sarà emanato), l’INPS dovrebbe essere in grado di conoscere, da subito, che il lavoratore oggetto di trattamento integrativo o sussidiario, è stato avviato. Il Legislatore delegato, sembra, sul punto, aver ripreso la normativa precedente, senza aver pensato a questa nuova possibilità, anche se, è bene ricordarlo, le imprese di somministrazione (eredi delle società di lavoro interinale) potranno effettuare le comunicazioni di assunzione entro il giorno venti del mese successivo;

La cancellazione trova applicazione allorquando l’offerta di lavoro o formativa sia congrua  rispetto alle competenze professionali del lavoratore e comporti uno spostamento dal luogo di residenza di un massimo di ottanta minuti con il mezzo pubblico. Il lavoratore definito “inoccupato” (che è colui che non ha mai lavorato e che è alla ricerca di un’attività) può essere cancellato dall’eventuale trattamento o sussidio soltanto in caso di rifiuto di un’offerta di lavoro o di un corso formativo autorizzato dalla Regione.

Anche in questo caso, il Legislatore delegato ha ripreso concetti già presenti nel nostro ordinamento fin dalla legge n. 675/1977 per quel che riguarda la distanza dalla residenza. Vale la pena di ricordare che il già citato art. 9 parla di 50 Km o sessanta minuti con mezzi pubblici.

Con i commi 4 e 5 si entra nell’esame dell’iter procedimentale finalizzato alla cancellazione dei rinunciatari ed alla possibilità per gli stessi di opporre gravame amministrativo.

I responsabili delle attività formative e le agenzie di somministrazione comunicano direttamente sia all’INPS che ai centri per l’impiego territorialmente competenti  i nominativi dei soggetti, a loro modo di vedere, decaduti dai trattamenti  previdenziali (perché non hanno frequentato i corsi formativi od hanno superato il numero di assenze consentito, o perché hanno rinunciato all’offerta lavorativa). L’INPS sospende l’erogazione del trattamento e ne da notizia agli interessati.

Questi ultimi possono ricorrere, entro i successivi trenta giorni, alle Direzioni provinciali del Lavoro competenti per territorio le quali decidono, in via definitiva, entro i venti giorni successivi, con comunicazione all’INPS dell’esito del ricorso. La disposizione è, per certi versi uguale  quella contenuta al comma 3 dell’art. 9 della legge n. 223/1991, come modificato dall’art. 2, comma 4, della legge n. 451/1994.

Vi sono però alcuni cambiamenti: il primo è che il ricorso ha carattere definitivo a differenza della disposizione appena citata che ipotizza una successiva impugnazione alla Direzione Regionale del Lavoro.

Il secondo è nei termini: trenta giorni, mentre la norme sopra menzionata ne prevede quindici.

Il comma 6 postula l’entrata in vigore di norme regionali che disciplinino compiutamente la materia: fino a quando ciò non avverrà il comma 1 che tratta le disposizioni in deroga trova applicazione soltanto in presenza di una convenzione tra agenzie di somministrazione (anche rappresentate dalla loro associazione) ed i Comuni, le Province e le Regioni: tali convenzioni possono essere stipulate con l’ausilio di agenzie tecnico strumentali del Ministero del Lavoro.

La possibilità di ricorrere a tali misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato riguarda anche le agenzie autorizzate, previo accreditamento nella sola Regione (art. 7). Gli Enti locali (Regioni, Province) ed i centri per l’impiego possono concorrere alle spese di costituzione e di funzionamento delle agenzie accreditate a livello regionale nel limite delle proprie disponibilità finanziarie.

Una riflessione, riferita allo scopo principale che si pone il Legislatore delegato con questo articolo, si rende necessaria.

Esso appare “modulato” per cercare di risolvere, in maniera definitiva, il problema dei lavoratori socialmente utili che, ancora, per l’età avanzata, la bassa scolarità,  la carenza di requisiti professionali appetibili e la marginalità sociale non hanno trovato una nuova stabile occupazione (dai 110.000 originari del 1998, si è scesi a luglio 2003 a quasi 32.000, ubicati, in via preponderante, nel Meridione). Il Nord, se si fa eccezione per qualche centinaio di unità in Liguria e Piemonte ne è del tutto escluso. Ora, con le c.d. misure di “workfare” e di politiche attive, con l’ausilio degli Enti locali e delle agenzie tecniche strumentali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (in sostanza, di Italia Lavoro SpA) si cerca di coinvolgere nelle iniziative di ricollocazione anche le agenzie di somministrazione.

 

ART. 14  Cooperative sociali e inserimento dei lavoratori svantaggiati

 

Questa disposizione che rappresenta un ulteriore strumento attuativo della legge n. 68/1999 ha una valenza sperimentale e limitata nel tempo. Infatti, il comma 12 dell’art. 86 afferma che, trascorsi diciotto mesi dall’entrata in vigore il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, dopo aver acquisito il parere delle Organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, riferisce in Parlamento allo scopo di valutare una ulteriore vigenza della norma. Essa nasce per rispondere anche ad una sostanziale inapplicabilità  verificatasi nella gestione dell’art. 12 della legge n. 68/1999 ove le convenzioni con le cooperative sociali e i disabili liberi professionisti per un inserimento temporaneo degli aventi diritto non ha prodotto gli effetti sperati. A ciò hanno contribuito oltre che un certa resistenza da parte dei soggetti privati, anche la temporaneità (dodici mesi prorogabili, al massimo, per un uguale periodo), la sostanziale non ripetibilità della convenzione ed i limiti percentuali dei soggetti minorati da coinvolgere.

Ora, il Legislatore delegato prova con un'altra strada, riprendendo, in grandi linee, quanto già sperimentato in sede locale a Treviso alla metà degli anni novanta sotto la vigenza della legge n. 482/1968.

Per favorire l’inserimento lavorativo dei disabili e dei lavoratori svantaggiati (quindi, non soltanto i disabili, ma anche coloro che hanno, comunque, bisogno di un aiuto per tornare sul mercato del lavoro, coma evidenziato alla lettera k dell’art. 2), i servizi provinciali per l’impiego, acquisito il parere del comitato tecnico, possono stipulare  convenzioni - quadro con le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello territoriale, con le associazioni di rappresentanza, tutela ed assistenza delle cooperative sociali e con i consorzi previsti dall’art. 8 della legge n. 381/1991, validati dalle Regioni, dopo che è stato acquisito il parere della Commissione Regionale Tripartita di concertazione (ma anche, stando al tenore letterale della norma, quello della Commissione provinciale tripartita per le politiche del lavoro, competente per territorio), il cui oggetto è il conferimento alle cooperative sociali di commesse  da parte delle imprese aderenti alle Associazioni datoriali firmatarie.

Come si vede, si tratta di un accordo “a tutto campo” che investe una serie di organi decisionali che operano sul mercato del lavoro e che dovrebbero consentire la creazione di una convenzione di riferimento in linea con le aspettative dei disabili, delle imprese e del c.d. “collocamento mirato”.

La convenzione – quadro deve obbligatoriamente disciplinare alcuni aspetti:

a)                 le modalità di adesione da parte delle imprese interessate;

b)                 i criteri di individuazione dei soggetti svantaggiati da inserire nel lavoro in cooperativa. Tale individuazione, sulla base del “curriculum”, delle propensioni professionali e del grado di disabilità  rientra nei compiti dei servizi provinciali per l’impiego dei disabili;

c)                 le modalità di attestazione del valore complessivo del lavoro conferito annualmente da ciascuna impresa e la correlazione con il numero dei lavoratori svantaggiati inseriti al lavoro in cooperativa. In pratica, la convenzione dovrà stabilire quanto, annualmente, in termini di commesse, è il “costo” del disabile;

d)                 la determinazione del coefficiente di calcolo del valore unitario delle commesse, secondo criteri di congruità con i costi del lavoro derivati dal CCNL applicato alle cooperative sociali;

e)                 la promozione e lo sviluppo delle commesse di lavoro a favore delle cooperative sociali;

f)                   l’eventuale costituzione nell’ambito dell’agenzia sociale prevista dall’art. 13 di una struttura tecnico – operativa senza fine di lucro finalizzata a supportare le attività previste dalla convenzione;

g)                 i limiti percentuali massimi di copertura della quota d’obbligo realizzabili attraverso la convenzione.

Il comma 3 rappresenta la “novità” rispetto alla convenzione stabilita dall’art. 12 della legge n. 68/1999. Se l’inserimento lavorativo dei soggetti portatori di handicap, realizzato nelle cooperative sociali, riguarda lavoratori che presentano particolari difficoltà di inserimento nel ciclo produttivo ordinario, esso sulla base della esclusiva valutazione dei servizi provinciali per l’impiego dei disabili, vale come copertura della quota d’obbligo in favore dell’impresa che conferisce commesse.

Ciò significa che l’eventuale computo sulla quota d’obbligo non è automatico, ma deve discendere da una valutazione dell’organo pubblico sulla base di precise disabilità rispetto all’ordinarietà del ciclo produttivo, riscontrate nel soggetto “protetto”.

Il trattamento economico e normativo per i portatori di handicap è quello previsto nel CCNL applicato dalle cooperative sociali.

Ma quale è il numero massimo possibile delle coperture attraverso tale sistema?

Premesso che la convenzione non può trovare applicazione nelle imprese con un organico compreso tra quindici e trentacinque unità (cosa che si spiega con la constatazione che l’obbligo nei loro confronti è di una sola unità), il numero delle coperture è dato dall’ammontare annuo delle commesse conferite diviso per il coefficiente stabilito alla lettera d): il tutto, ovviamente, nei limiti massimi stabiliti nell’accordo – quadro.

Un controllo sulla congruità della computabilità è riservato alla commissione provinciale per le politiche del lavoro, prevista dall’art. 6 del D. L.vo n. 469/1997.

Il comma 4 è, per così dire, una norma di “chiusura”: la computabilità dei soggetti adibiti presso le cooperative quali dipendenti delle stesse sulla base delle commesse conferite è subordinata alla copertura complessiva della quota d’obbligo attraverso l’assunzione, in azienda, delle altre unità di cui sia accertata la carenza.

Il quadro appena esaminato impone la necessità di qualche ulteriore considerazione. Rispetto al sistema delineato dall’art. 12 della legge n. 68/1999 c’è, sul piano contrattuale, qualcosa di diverso: qui i dipendenti sono assunti da subito a tempo pieno ed indeterminato dal datore di lavoro che li distacca, per tutta la durata della convenzione, presso la cooperativa sociale o il professionista disabile che, per tutta la durata dell’accordo, sono tenuti a pagare la retribuzione e gli oneri previdenziali ed assistenziali. E’ evidente una forma di solidarietà constatabile nel fatto che se per disavventura il disabile professionista o la cooperativa sociale dovessero smettere l’attività, i lavoratori invalidi tornano presso il proprio datore che li ha già assunti a tempo pieno ed indeterminato.

Nel caso prospettato dall’art. 14 la situazione sembra diversa in quanto l’assunzione è fatta dalla cooperativa sociale e non dall’impresa che conferisce soltanto le commesse. Ovviamente, essendo la convenzione continuamente monitorata se per una qualsiasi ragione le commesse fossero ridotte o venissero meno, è chiaro che i servizi competenti sarebbero in grado di prendere gli opportuni provvedimenti.

L’art. 14 potrebbe rappresentare una risposta razionale, dotata di equilibrio, soprattutto per quelle disabilità gravi per le quali, finora, c’è stata poca risposta con la legge n. 68/1999.

 

 

CAPO III

Borsa continua nazionale del lavoro e monitoraggio statistico

 

 

ART. 15  Principi e criteri generali

 

La disposizione è finalizzata alla creazione di una Borsa continua nazionale del lavoro, intesa quale sistema trasparente ed aperto della domanda e dell’offerta di lavoro basata su una rete di nodi regionali. Essa si configura come un punto di incontro telematico ove si possono incontrare tutte le proposte e le ricerche di lavoro introdotte da ogni soggetto che ne abbia interesse.  Quindi, non soltanto tutti i soggetti che operano sul mercato (autorizzati o accreditati, centri per l’impiego, ecc.) ma anche lavoratori e singoli datori di lavoro. La Borsa telematica è liberamente accessibile da tutti e deve essere consultabile da qualunque punto della rete ed i lavoratori e le imprese hanno la possibilità di inserire candidature o richieste di personale, senza intermediari, da qualunque punto di rete attraverso gli accessi che tutti i soggetti che operano sul mercato del lavoro debbono tenere a disposizione.

I servizi della Borsa continua nazionale del lavoro si articolano su due ambiti, il nazionale ed il regionale.

Nel primo sono definiti gli standard tecnici nazionali flussi informativi di scambio, l’interoperabilità dei sistemi regionali e la definizione dell’insieme delle informazioni destinate a creare trasparenza sul mercato del lavoro.

Nel secondo sono individuati l’integrazione tra pubblico e privato sul territorio, la definizione e la realizzazione del modello dei servizi al lavoro e la cooperazione alla definizione degli standard nazionali di intercomunicazione.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali si rende disponibile a fornire il proprio supporto tecnico alle Regioni ed alle Province autonome che ne facciano richiesta nell’ambito dell’esercizio delle loro competenze.

 

ART. 16  Standard tecnici e flussi informativi di scambio

 

Tra le molteplici incombenze che il decreto legislativo impone al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali c’è anche quella di provvedere, nei trenta giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento, alla emanazione di un provvedimento “concertato” con il Ministro dell’Innovazione e della Tecnologia e d’intesa con le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, destinato a fissare gli standard tecnici ed i flussi informativi di scambio tra i vari sistemi, nonché le sedi tecniche che assicureranno il raccordo ed il coordinamento a livello nazionale.

La definizione di tali standard e flussi informativi avviene nel rispetto delle competenze delineate dall’accordo Stato – Regioni dell’11 luglio 2002 e dall’art. 31, comma 2, della legge n. 675/1996.

 

ART. 17  Monitoraggio statistico e valutazione delle politiche del lavoro

 

La disposizione inizia ricordando quali sono gli elementi omogenei e condivisi da tutti i sistemi informatici nei rispettivi ambiti di riferimento (nazionale, regionale e provinciale).

Essi sono costituiti dalle basi informative contenute nella Borsa continua nazionale del lavoro, le registrazioni delle comunicazioni dei datori di lavoro inviate ai competenti servizi per l’impiego, le registrazioni delle attività da questi poste in essere nei confronti dell’utenza, riportate sulla scheda anagrafico – professionale.

Le indagini statistiche su tali elementi vengono effettuate in forma anonima.

L’articolato continua al comma 2, fornendo alcune disposizioni estremamente tecniche come quelle secondo le quali la definizione e la manutenzione applicativa delle basi informative e di quelle presso gli Enti previdenziali in materia di contribuzione e di prestazioni erogate, tiene conto sia delle esigenze conoscitive generali, comprese quelle di ordine statistico rappresentate nell’ambito del Sistan e da parte dell’Istat, nonché di specifiche valutazioni ed interventi formulati con le modalità previste dal presente articolo.

Il comma 3 fa, innanzitutto, riferimento a due decreti che il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali è tenuto ad emanare sulla base di quanto previsto dal comma 1 dell’art. 1 –bis  e dal comma 7 dell’art. 4 –bis del D. L.vo n. 181/2000, come modificato dagli articoli 2 e 6 del D. L.vo n. 297/2002. Si tratta di due provvedimenti, da emanare di concerto con il Ministro dell’Innovazione e della Tecnologia, d’intesa con le autonomie locali, con le quali vanno definiti il modello di comunicazione, il formato di trasmissione, il sistema di classificazione dei dati contenuti nella scheda anagrafica ed in quella professionale, nonché i moduli per le comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro. Ebbene essi devono tenere conto sia delle esigenze espresse nei due primi commi che del parere dell’Isfol e dell’Istat. Nei novanta giorni successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, avvalendosi delle indicazioni fornite da una commissione di esperti appartenenti a vari Enti locali (Regioni e Province), previdenziali, statistici, formativi e dei Ministeri dell’Economia e del Lavoro, impartisce le necessarie disposizioni di adeguamento agli Enti previdenziali. La stessa commissione, integrata dalle parti sociali ha sei mesi di tempo per definire una serie di indicatori finanziari, fisici e procedurali che, approvati dalla conferenza unificata Stato – Regioni, costituiranno le linee guida per le attività di monitoraggio e valutazione delle condotte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, delle Regioni e delle Province.

In attesa della piena operatività della Borsa continua nazionale del lavoro il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sempre con l’accordo  della conferenza unificata Stato – Regioni, consegna alle agenzie autorizzate o accreditate ed ai soggetti in possesso di particolare autorizzazione uno o più modelli di rilevazione. La mancata risposta di questi operatori può comportare la revoca dell’autorizzazione o dell’accreditamento.

Sulla base di tali strumenti informativi e, tenuto conto delle linee giuda, Il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, avvalendosi di proprie strutture e del supporto dell’Isfol, predispone con cadenza annuale una dettagliata relazione al Parlamento ed alla conferenza unificata Stato – Regioni, sul complesso delle politiche del lavoro esistenti e sulla loro evoluzione.

Le attività di monitoraggio devono consentire di valutare l’efficacia delle politiche del lavoro e delle misure nuove ipotizzate dal decreto legislativo.

L’ultimo comma riserva una attenzione specifica ai contratti di apprendistato che rappresentano una delle grosse novità della riforma. Viene, a tal proposito, costituita con provvedimento ministeriale, nei tre mesi successivi all’entrata in vigore decreto legislativo, una commissione nazionale di sorveglianza con  il compito di seguire “passo – passo” l’iter del rinnovamento. Essa è formata (ma la norma non specifica il numero dei componenti, né la ripartizione “numerica” tra i vari organismi) da rappresentanti ed esperti designati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali tra i quali è individuato il Presidente, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dalle Regioni e Province autonome, dalle parti sociali, dall’INPS ed dall’Isfol. La commissione si riunisce almeno tre volte all’anno e formula linee guida per la valutazione, nonché indicatori di risultato e di impatto sui singoli aspetti della riforma. La stessa commissione può formulare pareri e valutazioni sulla base sia di studi effettuati che di studi commissionati.

L’art. 17 termina affermando che dopo tre anni la commissione predispone una propria relazione evidenziando sia le realizzazioni che i problemi esistenti e formulando le possibili modifiche. Le risorse economiche per il funzionamento derivano dal bilancio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Ufficio centrale per l’orientamento e la formazione professionale dei lavoratori.

 

CAPO IV

Regime sanzionatorio

 

 

ART. 18  Sanzioni penali

 

Si è tanto parlato di flessibilità a proposito della legge n. 30/2003 e ciò è, indubbiamente, vero: tuttavia, va sottolineato come un sistema sanzionatorio estremamente puntuale sia stato definito per tutte quelle “situazioni” non ortodosse riconducibili alla somministrazione di lavoro ed alle altre ipotesi contemplate dell’art. 4.

Ma andiamo con ordine

Il comma 1 stabilisce che l’esercizio non autorizzato delle attività correlate alla domanda ed all’offerta di lavoro (somministrazione, ricerca e selezione di personale, intermediazione e supporto alla ricollocazione professionale) è illecito penale. Infatti, esso è punito con una ammenda pari a cinque euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. L’intermediazione abusiva è punita con l’arresto fino a sei mesi e con una ammenda compresa tra 1.500 e 7.000 euro. Se non vi è scopo di lucro la pena è rappresentata da un’ammenda compresa tra 500 e 2.500 euro. L’utilizzazione abusiva di minori (giovani di età inferiore a diciotto anni) è oltremodo penalizzante: reclusione fino a diciotto mesi e ammenda aumentabile per un massimo di sei volte. Alla condanna segue, in ogni caso, la confisca del mezzo di trasporto eventualmente adoperato per l’esercizio dell’attività.

Le stesse sanzioni (comma 2) trovano applicazione nei confronti dell’utilizzatore che ricorra ai c.d. “somministratori abusivi”.

La violazione degli obblighi e dei divieti previsti dall’art. 20, commi 1, 3, 4 e 5, 21, commi 1 e 2, nonché per il solo somministratore, dell’art. 21, comma 3, (si tratta, in quest’ultimo caso, della mancata comunicazione per iscritto al lavoratore della data di inizio dell’attività e della sua prevedibile durata) comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa compresa tra 250 e 1.250 euro: tali sanzioni si aggiungono a quelle previste ai commi precedenti. Ovviamente, trattandosi, in quest’ultima ipotesi, di sanzione amministrativa trova applicazione l’art. 16 della legge n. 689/1981 che ammette il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo o, se più favorevole, e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo, oltre alle spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi sia stata, dalla notificazione degli estremi della violazione.

C’è, poi, il problema della gratuità del servizio per il lavoratore: come si ricorderà l’art. 11, dopo aver fatto divieto ai soggetti autorizzati od accreditati di esigere o di percepire, anche indirettamente, compensi dai lavoratori, aveva ipotizzato la possibilità che attraverso accordi collettivi nazionali o territoriali si potessero ipotizzare per alcune specifiche categorie di lavoratori altamente qualificate, forme di “servizi a pagamento”. Ebbene, al di fuori di questi casi che comunque ancora non ci sono, non è possibile pensare ad alcuna erogazione economica da parte di chi cerca lavoro: chi lo facesse, incorre, se autorizzato, nella pena consistente fino ad un anno di reclusione o con l’ammenda compresa tra 2.500 e 6.000 euro, cui si aggiunge la pena accessoria della cancellazione dall’albo.

Anche il divieto di indagine sulle opinioni ed i trattamenti discriminatori (sui quali si sofferma anche il D. L.vo n. 215/2003) sono puniti penalmente con un’ammenda che va da 154 a 1.549 euro. Nei casi più gravi si procede alla sospensione dell’autorizzazione che, in caso di recidiva, può essere revocata.

L’ultimo comma affida ad un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, da emanare nei sei mesi successivi all’entrata in vigore del nuovo provvedimento, il compito di individuare criteri interpretativi per eliminare e definire le varie forme di contenzioso riferite al precedente regime in cui era vigente, in materia di intermediazione ed interposizione, la legge n. 1369/1960. A mio avviso, la definizione, con atto amministrativo, di “criteri interpretativi certi” non potrà riguardare gli aspetti di rilevanza penale connessi all’interposizione ed alla intermediazione, ma soltanto gli eventuali effetti di natura sanzionatoria amministrativa ad esse riferiti.

 

ART. 19  Sanzioni amministrative

 

Con l’art. 19 il Legislatore delegato riunisce alcune sanzioni amministrative di diversa natura: alcune relative agli annunci pubblicati in violazione dell’art. 9, altre riferite alla modifica delle sanzioni in materia di comunicazione previste dal D. L.vo n. 297/2002 che è intervenuto, modificandolo, sul D. L.vo n. 181/2000.

Ma andiamo con ordine.

Il comma 1 punisce con una sanzione amministrativa compresa tra 4.000 e 12.000 euro gli editori, i direttori responsabili ed i gestori di siti ove siano pubblicati annunci in violazione di quanto previsto dall’art. 9. Nel rimandare a quanto è già stato oggetto di trattazione allorchè ci si è soffermati su questo argomento, ricordo come l’attuale normativa sia abbastanza stringente tale da identificare, attraverso gli estremi dell’autorizzazione o dell’accredito da chi è partito l’annuncio.

Con i successivi commi, invece, il Legislatore delegato, forte della previsione contenuta all’art. 1, comma 2, lettera b), punto 3, della legge n. 30/2003 ha proceduto ad una rivisitazione delle sanzioni amministrative connesse alla violazione degli obblighi di comunicazione quali risultano dopo il D. L.vo n. 297/2002. Per la verità, il Governo aveva già pensato di introdurre nuove e diverse norme sanzionatorie in quel provvedimento, ma la legge da cui traeva origine, la n. 144/1999, non prevedeva alcuna specifica delega in materia.

Il problema che si pone all’interprete è quello di verificare l’impatto delle nuove sanzioni sul testo novellato nel gennaio 2003, atteso che, pur non applicandosi il decreto legislativo alle Pubbliche Amministrazioni, le sanzioni che si vanno a commentare trovano applicazione anche a queste ultime.

Esse sono applicabili, laddove richiamate, anche alla Pubblica Amministrazione in quanto, al di là di ciò che ha affermato l’art. 1, comma 2, occorre tener presente l’art. 19 il quale, all’ultimo comma, parlando della sanzione minima ridotta, afferma in un inciso che in essa sono “comprese le Pubbliche Amministrazioni”, cui si applica “in toto”, il novellato art. 4 –bis del D. L.vo n. 181/2000, ed, inoltre, l’ultimo periodo dell’art. 86, comma 9, dispone che le sanzioni amministrative di cui all’art. 19 si applicano anche nei confronti della Pubblica Amministrazione.

Prime di entrare nel merito del nuovo apparato sanzionatorio (che sostituirà il precedente a partire dal giorno di entrata in vigore del decreto legislativo), occorre sottolineare come si passi da una sostanziale equiparazione di tutte le violazioni (che andavano da 258 a 1549 euro) ad una diversificazione delle stesse, ove il Legislatore delegato ha provveduto a mantenere pressoché uguali quelle relative all’iscrizione sui libri obbligatori e lettera di assunzione, mentre ha ridotto notevolmente l’importo di quelle legate alle mere comunicazioni agli organi dell’impiego.

La mancata consegna, all’atto dell’assunzione, al lavoratore da parte dei datori di lavoro privati e degli Enti pubblici Economici (sono escluse, in questo caso, le altre Pubbliche Amministrazioni) di una dichiarazione sottoscritta contenente i dati di registrazione effettuati sul libro matricola, nonché la carenza della comunicazione prevista dal D. L.vo n. 152/1997 (che è l’informativa sulle condizioni economiche e normative la quale si concretizza, sostanzialmente, nella lettera di assunzione) è punita con la sanzione amministrativa compresa tra 250 e 1500 euro per ogni soggetti  interessato. Il vecchio art. 9 –bis, comma 3, della legge n. 608/1996, abrogato per effetto del successivo art. 85 ( unitamente all’art. 9 –quater commi 4 e 18 riguardante, quest’ultimo, l’obbligo della consegna della consegna del foglio tratto dal registro d’impresa al lavoratore agricolo all’atto dell’assunzione), parlava, limitatamente alla mancata consegna delle dichiarazione contenente i dati di registrazione di una sanzione amministrativa (onorabile con il pagamento in misura ridotta ex art. 16 della legge n. 689/1981) compresa tra 258 e 1.549 euro. Sostanzialmente, la disposizione sanzionatoria è rimasta uguale ma quello che fa pensare (e su ciò è indispensabile un chiarimento amministrativo) è verificare se le trasgressioni possono essere due (come prima, atteso che la disposizione oltre la mancata consegna parla anche della dichiarazione ex D. L.vo n. 152/1997) o una soltanto (intesa in senso unitario) dal momento che il comma 2 parla di “violazione dell’obbligo” e non di “violazione degli obblighi”, così come è stato già prospettato da qualche commentatore.

Una eccezione alla disciplina generale su questa ultima disposizione è rinvenibile all’art. 6, comma 3, della legge n. 218/2003 che disciplina l’attività di trasporto di viaggiatori con noleggio di autobus con conducente. La disposizione, in vigore dal 16 novembre 2003 (centoventi giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, come recita l’art. 12) è, senz’altro, speciale rispetto alla disciplina generale e punisce (ma, francamente, non si ravvisa la necessità di questa eccezione), la mancata consegna al lavoratore dipendente di una dichiarazione sottoscritta contenente gli “estremi della registrazione a libro matricola e il rispetto dei contratti collettivi di categoria” con una sanzione amministrativa compresa tra 500 e 2.000 euro. Per completezza di informazione va precisato che qualora il trasporto venga effettuato con un lavoratore interinale (o, aggiungo, quando entrerà in vigore la nuova disciplina, con un lavoratore “somministrato”) lo stesso deve essere in possesso di una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, resa dal legale rappresentante dell’impresa, come previsto dall’art. 47 del DPR n. 445/2000. Ovviamente, la carenza di tale dichiarazione comporta l’applicazione della medesima sanzione amministrativa sopra descritta. 

Il comma 3 dell’art. 19, parlando di violazione degli obblighi previsti dai commi 5 e 7 dell’art. 4 –bis del D. L.vo n. 181/2000, ed i riferimenti all’art. 9 –bis, comma 2 della legge n. 608/1996 e all’art. 21, comma 1, della legge n. 264/1949, come sostituiti dall’art. 6, commi 2 e 3 del D. L.vo n. 297/2002, impongono necessariamente un breve riassunto di quella che è l’attuale situazione relativa agli obblighi di comunicazione

La novità più rilevante è che, rispetto al passato, l’obbligo della comunicazione di assunzione riguarderà (quando sarà emanato il modello unificato cui fa riferimento il comma 7 dell’art. 4 –bis) tutti i datori di lavoro, comprese le Pubbliche Amministrazioni, a prescindere da come si sia realizzata la modalità assuntiva (concorso, prove selettive, chiamata diretta per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata). Ciò avverrà, a differenza di oggi, ove il termine massimo è fissato in cinque giorni dall’assunzione, contestualmente (o anche prima) con l’indicazione di una serie di elementi riferiti al rapporto che nulla cambiano per i datori di lavoro privati e gli Enti pubblici economici, rispetto al momento attuale. A regime, sia le comunicazioni indirizzate ai centri per l’impiego che quelle obbligatorie per l’INPS, l’INAIL (si pensi alla denuncia istantanea ex art. 14 del D. L.vo n. 38/2000) o per gli organi periferici del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dovranno essere effettuate mediante il “modello unificato” adottato con decreto ministeriale e ciò avverrà dalla data stabilita in tale provvedimento. Questo significa che i privati (compresi i datori di lavoro domestici, per effetto dell’abrogazione del comma 4 dell’art. 9 –bis, della legge n. 608/1996, intervenuto con l’art. 8 del D. L.vo n. 297/2002) e gli Enti pubblici economici sono tenuti, ancora, a seguire le procedure attualmente in uso che contemplano l’utilizzazione del modello allegato al D.M. 20 dicembre 1995, pubblicato sulla G. U. n. 81 del 5 aprile 1996.

La comunicazione contestuale ai servizi competenti (che può avvenire anche il giorno dopo se verificatasi in orario serale o notturno o, in una data successiva, se per forza maggiore, quando cioè viene meno l’impedimento), oltre che per i rapporti di lavoro subordinato, a prescindere dalla tipologia contrattuale, riguarderà (e questa è la novità del 9 –bis, comma 2,  della legge n. 608/1996 che va correlata con le nuove disposizioni in materia di rapporto di lavoro introdotte dal decreto legislativo) anche rapporti non propriamente subordinati:

a)                 il lavoro autonomo in forma coordinata e continuativa. Quando troverà piena applicazione l’art. 61, comma 3, nel settore privato le uniche “collaborazioni coordinate e continuative” saranno quelle riferibili alle professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione ad un albo, quelle svolte in favore delle associazioni sportive dilettantistiche affiliate al CONI o da esso riconosciute, quelle rese dai componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società, quelle dei partecipanti a collegi o commissioni e quelle dei soggetti che godono la pensione di vecchiaia. La comunicazione contestuale potrebbe riguardare anche  tutti i contratti a progetto (la norma, ovviamente, non ne poteva parlare essendo stata emanata, con il D. L.vo n. 297/2002, il 15 gennaio 2003 e, forse, atteso che sono previste sanzioni amministrative, si potrebbe pensare ad un provvedimento normativo in questa direzione) destinati a prendere, di fatto, il posto di gran parte delle collaborazioni coordinate e continuative. Per quel che concerne, invece, le Pubbliche Amministrazioni, attesa la circostanza che il decreto legislativo non trova applicazione, le collaborazioni coordinate e continuative restano (e, quindi le comunicazioni contestuali di inizio rapporto andranno, a regime, effettuate) a meno che, nel frattempo, non siano stati attuati provvedimenti di armonizzazione della normativa, con la procedura richiesta dall’art. 86, comma 8;

b)                 il rapporto associato in cooperativa (qualunque sia l’ulteriore rapporto delineato alla luce della legge n. 142/2001 e dei cambiamenti introdotti dall’art. 9 della legge n. 30/2003);

c)                 i tirocini di formazione e di orientamento ed ogni altro tipo di esperienza lavorativa assimilata, ivi compresi i tirocini estivi di orientamento, disciplinati dall’art. 60.

Dagli obblighi di comunicazione ai servizi per l’impiego restano, comunque, escluse, allo stato attuale della normativa, sia le collaborazioni occasionali, previste dall’art. 61, comma 2, che le associazioni in partecipazione.

La comunicazione ai servizi per l’impiego non riguarderà, stando alla previsione contenuta nel D. L.vo n. 297/2002 che non le cita, le collaborazioni a carattere occasionale (che sono tali nei limiti dei trenta giorni nell’anno solare con lo stesso committente o dei 5.000 euro di compenso), e, a mio avviso, le prestazioni di carattere accessorio (nei limiti di trenta giorni all’anno complessivamente e 3.000 di compenso), pur se sui soggetti che dovessero instaurare questi ultimi rapporti sono, in un certo senso, già monitorati (art. 71) dal centro per l’impiego, attraverso la loro disponibilità e la c.d. “tessera magnetica”.

La breve premessa si è resa necessaria in quanto aiuta a comprendere il riferimento ai commi 5 e 7 dell’art. 4 –bis ed alla nuova disposizione sulle comunicazioni di cessazione del rapporto, la cui violazione è punita con la sanzione amministrativa compresa tra 100 e 500 euro.

Qui si pone, a mio avviso, soltanto per quel che riguarda le sanzioni relative alle tardive comunicazioni di assunzione e di cessazione una questione di raccordo tra norme se (quindi, la questione è ipotetica) il 24 ottobre 2003, data di entrata in vigore del decreto legislativo, non sarà stato emanato il provvedimento ministeriale di approvazione del c.d. “modello unificato” (per il quale l’art. 17 ha aggiunto all’iter procedimentale  anche il parere dell’Istat e dell’Isfol e che, inoltre, per quel che concerne i rapporti a tempo determinato in agricoltura dovrà prevedere gli ulteriori adempimenti contenuti nell’art. 43, comma 7, del D. L. n. 269/2003) richiamato, continuamente, anche in funzione del nuovo apparato punitivo.  Sul punto, anche per orientare l’azione di controllo degli organi di vigilanza appare necessaria quantomeno una circolare amministrativa, finalizzata a chiarire se le nuove ridotte sanzioni siano applicabili, da subito (come si ritiene opportuno), alle vecchie fattispecie (comunicazioni tardive oltre i cinque giorni successivi all’assunzione od alla cessazione), pur in assenza del “modello unificato”..

Il comma 5 fa riferimento ad una serie di trasformazioni e variazioni nel rapporto di lavoro, finora non sanzionate, il cui obiettivo è quello di favorire, con la comunicazione al servizio per l’impiego, la creazione della banca – dati. Tutti i datori di lavoro, comprese le Pubbliche Amministrazioni, entro cinque giorni da quando si è verificato l’evento sono tenuti a comunicare, oltre alla trasformazione dell’esperienza di tirocinio o di altra attività non qualificata come lavorativa in rapporto subordinato:

a)                 la proroga del termine inizialmente fissato nel contratto. La disposizione si riferisce ai contratti a termine nei quali la proroga è una soltanto e deve avvenire, con il consenso del lavoratore,, per esigenze tecnico – produttive, organizzative o sostitutive. Vale la pena di ricordare come l’art. 4 del D. L.vo n. 368/2001 consenta una durata complessiva del contratto (con eccezione dei dirigenti per i quali il termine massimo è fissato in cinque anni) per trentasei mesi;

b)                 la trasformazione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato;

c)                 la trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno;

d)                 la trasformazione da contratto di apprendistato a contratto a tempo indeterminato. Ciò troverà applicazione anche quando andrà a regime la riforma dell’istituto prevista dagli articoli dal 47 al 53 del decreto legislativo;

e)                 trasformazione da contratto di formazione e lavoro a contratto a tempo indeterminato. Ciò avverrà, nel corso degli anni, sempre di meno atteso che, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, secondo quanto recita l’art. 86, comma 9, secondo periodo, “la vigente disciplina in materia di contratti di formazione e lavoro, fatto salvo quanto previsto dall’art. 59, comma 3 (si tratta degli incentivi per i contratti di inserimento che sono gli stessi già previsti per i contratti di formazione e lavoro), trova applicazione esclusivamente nei confronti della Pubblica Amministrazione”.

Il comma 7 che ancora, come si diceva, non è andato a regime, si riferisce al modello per le comunicazioni contestuali obbligatorie dei datori di lavoro che dovrà essere definito con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, concertato con quello per l’Innovazione e le Tecnologie, d’intesa con la conferenza Stato –Regioni e con il parere dell’Istat e dell’Isfol: quindi la violazione dell’obbligo va intesa soltanto per quei datori di lavoro privati o per gli Enti pubblici economici tenuti ad effettuare la comunicazione di assunzione nei cinque giorni successivi all’assunzione.

Il riferimento al nuovo art. 21, comma 1, della legge n. 264/1949, come sostituito dall’art. 6, comma 3, del D. L.vo n. 297/2002, riguarda le comunicazioni delle cessazioni dei rapporti di lavoro (o la diversa data rispetto a quella comunicata con l’assunzione) per le quali è rimasto il termine dei cinque giorni: esso, ancora, non trova applicazione alle Pubbliche Amministrazioni che saranno tenute ad effettuare le comunicazioni di cessazione (anche per pensionamento) allorché entrerà in vigore il “modello unificato”.

Il comma 4, riferendosi alla violazione degli obblighi di cui all’art. 4 –bis, comma 4, del D. L.vo n. 181/2000, chiama in causa le imprese fornitrici di lavoro temporaneo che sono tenute ad effettuare le comunicazioni relative alle assunzioni, alle proroghe ed alle cessazioni dei rapporti riguardanti i lavoratori impiegati nel mese precedente, entro il giorno venti del mese successivo Esse vanno inviate al centro per l’impiego nel cui ambito territoriale è ubicata la sede operativa.

L’art. 86, comma 7, afferma che l’obbligo di comunicazione nei confronti dei servizi per l’impiego delle società di lavoro interinale e la particolare disciplina per esse prevista dall’art. 4 –bis, comma 4, del D. L.vo n. 181/2000 trova applicazione anche per  tutte le imprese di somministrazione che stipulino contratti sia a tempo indeterminato che a tempo determinato.

La sanzione amministrativa per ogni lavoratore interessato è compresa tra 50 e 250 euro.

L’ultimo comma dell’art. 19 si può definire come il c.d. “ravvedimento operoso” in materia di comunicazioni agli organi dell’impiego. Afferma la disposizione che “nel caso di omessa comunicazione contestuale, omessa comunicazione di cessazione e omessa comunicazione di trasformazione, i datori di lavoro, comprese le Pubbliche Amministrazioni, sono ammessi al pagamento della sanzione minima ridotta della metà qualora l’adempimento della comunicazione venga effettuato spontaneamente entro il termine di cinque giorni decorrenti dalla data di inizio dell’omissione”.

Prime di quantificare concretamente gli importi delle riduzioni occorre, a mio avviso, compiere due riflessioni.

La prima è che la disposizione, stando al tenore letterale della disposizione, dovrebbe trovare applicazione soltanto dal momento in cui andrà a regime il c.d. “modello unificato” per la comunicazione contestuale. Qualora, invece, si intendesse, attraverso un chiarimento amministrativo, applicare, da subito, la disposizione (cosa che, potrebbe essere facilmente motivata con le lungaggini burocratiche connesse alla sua emanazione) il computo dei cinque giorni (calcolati con il sistema previsto dal codice civile), decorrerebbe dall’ultimo giorno, oggi, utile (il quinto dall’assunzione) per l’invio della comunicazione di assunzione: quando il nuovo modello sarà in vigore il computo partirà dal giorno dell’inizio dell’attività. Ovviamente, tale soluzione comporta la necessità che da un punto di vista amministrativo si “sposi”, in via prioritaria, la tesi che le nuove ridotte sanzioni, in assenza delle altre abrogate, si applichino anche senza il c.d. “modello unificato” (ma se così fosse, a mio avviso, occorrerebbe, per il principio di legalità, una chiara disposizione).

La seconda considerazione riguarda il significato da dare all’aggettivo “spontaneamente”: ritengo che lo stesso debba scaturite unilateralmente dall’azione del datore di lavoro o del proprio consulente, atteso che non credo che si possa parlare di “spontaneità” qualora la comunicazione avvenga a seguito di accesso ispettivo degli organi di vigilanza.

Alla luce di quanto appena affermato si possono evidenziare le somme dovute a titolo di sanzione amministrativa, per ciascun lavoratore interessato, per il ritardo nella comunicazione che, comunque, è stata effettuata al centro per l’impiego nei cinque giorni successivi a quello di scadenza:

a)                 trasformazione  del rapporto 50 euro;

b)                 comunicazione contestuale di assunzione: 50 euro;

c)                 cessazione del rapporto: 50 euro;

d)                 comunicazione di assunzione o di cessazione delle imprese di lavoro temporaneo e delle imprese di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato: 25 euro.

 

 

TITOLO III

Somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco

 

CAPO I

Somministrazione di lavoro

 

 

ART. 20  Condizioni di liceità

 

Il contratto di somministrazione può essere concluso per rapporti a tempo indeterminato o determinato da ogni soggetto e va sottoscritto con un somministratore autorizzato secondo le procedure previste dagli articoli 4 e 5. Per la verità, una eccezione esiste e riguarda le Pubbliche Amministrazioni, le quali possono ricorrere alla somministrazione ( art. 86, comma 9) soltanto per prestazioni a termine.

La disciplina del rapporto di somministrazione ricalca, in larga parte, quella “trilaterale” a suo tempo prevista per il lavoro interinale: per tutta la durata della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse e sotto il potere direttivo e di controllo dell’utilizzatore. Se l’assunzione dei prestatori da parte della impresa di somministrazione avviene a tempo indeterminato, gli stessi restano a disposizione della stessa nei periodi in cui non svolgono attività ed il rapporto stesso può essere risolto soltanto per giusta causa o giustificato motivo. Per le società di somministrazione valgono, ai fini della comunicazione ai centri per l’impiego, le regole già dettate per le imprese di lavoro temporaneo dall’art. 4 –bis, comma 4, del D. L.vo n. 181/2000, come modificato dall’art. 6, comma 1, del D. L.vo n. 297/2002 (termine del venti del mese successivo a quello cui si riferisce l’assunzione): così recita il comma 7 dell’art. 86.

L’art. 20 chiarisce tutte le fattispecie per le quali la somministrazione può avvenire a tempo indeterminato (c.d. “staff leasing”). Esse sono:

a)                 i servizi di consulenza ed assistenza nel settore informatico, compresa la progettazione e la manutenzione di reti Internet e Extranet, siti Internet, sistemi informatici, sviluppo di software applicativo, caricamento dati;

b)                 i servizi di pulizia, custodia e portineria;

c)                 i servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di persone e di trasporto e movimentazione di macchinari e merci;

d)                 la gestione delle biblioteche, dei parchi, dei musei, degli archivi, dei magazzini, nonché dei servizi di economato;

e)                 le attività di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamento, gestione del personale, ricerca e selezione del personale;

f)                   le attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della funzione commerciale;

g)                 la gestione di call – center, nonché l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali nelle c.d. “aree Obiettivo 1”;

h)                 le costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti, le installazioni o smontaggio di impianti e macchinari, le particolari attività produttive, con specifico riferimento all’edilizia ed alla cantieristica navale, che richiedano più fasi di lavorazione, l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata dall’impresa;

i)                   gli altri casi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale o territoriale stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative.

Come si vede, lo “spettro” delle attività per le quali è possibile la somministrazione è estremamente ampio, sì da far pensare a cosa è, sostanzialmente, rimasto fuori, anche alla luce della proroga temporanea delle causali previste per le società fornitrici di lavoro temporaneo, prevista dall’art. 86, comma 3.

Per la somministrazione di lavoro a tempo determinato il Legislatore delegato si rifà alla normativa sui contratti a termine prevista, in via generale, dal D. L.vo n. 368/2001 ed alle causali da esso individuate, riconducibili a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. La individuazione dei limiti quantitativi ammessi è demandata alla contrattazione collettiva nazionale nel rispetto della specifica disciplina prevista dall’art. 10 del decreto legislativo appena citato. I limiti quantitativi possono anche non essere uniformi sul territorio nazionale (magari, privilegiando le zone a maggior occupazione) e rispettando le esenzioni numeriche ivi previste.

Il successivo comma 5 parla delle ipotesi in cui il contratto di somministrazione è vietato e ci si accorge che esse sono le stesse già previste sia per il lavoro interinale che per i contratti a termine:

a)                 sostituzione di lavoratori in sciopero;

b)                 assunzioni presso unità produttive nelle quali, nei sei mesi precedenti, si sia proceduto a licenziamenti collettivi secondo la procedura prevista dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce la somministrazione, o presso unità produttive ove sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione di orario (es. CIG, CIGS, contratti di solidarietà “difensiva”), con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione. Tutto ciò, tuttavia, può essere superato attraverso intese sindacali. La disposizione merita alcune riflessioni. Così come è scritta la norma, il divieto sembra operare soltanto in quelle ipotesi nelle quali c’è stata una riduzione di personale secondo la procedura collettiva prevista dalla legge n. 223/1991 (azienda sovradimensionata alle quindici unità ed almeno cinque licenziamenti operati nell’arco di centoventi giorni, pur se, secondo un indirizzo del Ministero del Lavoro risalente al 1994 il requisito dei cinque esuberi deve sussistere al momento dell’inizio della procedura): da ciò si deduce che restano fuori le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (es, carenza di commesse) adottato sia nelle piccole che nelle imprese con più di quindici dipendenti. Un’altra considerazione va fatta sulle ipotesi di riduzione di orario: il Legislatore delegato mette il divieto soltanto se dalla riduzione scaturisce un intervento integrativo salariale a carico dell’INPS e, comunque, ritiene possibile l’aggiramento del divieto qualora il contratto di somministrazione si riferisca a mansioni diverse da quelle dei lavoratori licenziati o in riduzione di orario;

c)                 assunzioni presso imprese che non hanno effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D. L.vo n. 626/1994.

La disposizione sui divieti appena enunciati si presta ad alcune considerazioni alla luce dell’art. 18, comma 3. Anche il somministratore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 250 e 1250 euro ma lo stesso, in alcune ipotesi, potrebbe incolpevolmente non essere a conoscenza dell’esistenza di causali vietate. Ciò dovrebbe consigliare l’inclusione nel contratto di somministrazione (con la sottoscrizione della loro assenza da parte dell’utilizzatore) anche delle ipotesi espressamente vietate dalla legge.

 

ART. 21  Forma del contratto di somministrazione

 

Per la stipula del contratto di somministrazione, sia a tempo indeterminato che a tempo determinato, è richiesta la forma scritta. Esso deve contenere i seguenti elementi, seguendo le indicazioni (comma 2) dei contratti collettivi:

a)                 gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore;

b)                 il numero dei lavoratori interessati;

c)                 i casi  e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo;

d)                 l’indicazione della presenza di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e le misure di prevenzione adottate;

e)                 la data di inizio e la durata;

f)                   le mansioni di adibizione e l’inquadramento dei lavoratori;

g)                 il luogo, l’orario ed il trattamento economico e normativo delle prestazioni lavorative;

h)                 l’assunzione da parte del somministratore dell’obbligazione del pagamento diretto al lavoratore e del versamento dei contributi previdenziali;

i)                   l’assunzione dell’obbligo da parte dell’utilizzatore di rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e contributivi effettivamente sostenuti;

j)                    l’assunzione dell’obbligo da parte dell’utilizzatore di comunicare al somministratore i trattamenti retributivi applicabili ai lavoratori cui possono gli stessi essere comparati all’interno dell’azienda;

k)                 l’assunzione da parte dell’utilizzatore, in caso di inadempimento del somministratore, dell’obbligo del pagamento diretto delle retribuzioni al lavoratore, nonché del versamento dei contributi previdenziali, fatto salvo il diritto di rivalsa.

Il somministratore è tenuto ad informare il lavoratore sui contenuti del contratto, nonché a comunicare la data di inizio ( ma anche il luogo, pur le la norma non lo dice espressamente in questo punto) e la durata prevedibile della prestazione. Tale comunicazione va fatta per iscritto all’atto della stipula del contratto di lavoro o nel momento in cui è inviato presso l’utilizzatore.

La mancanza della forma scritta, l’assenza del numero di autorizzazione, la non indicazione numerica dei lavoratori interessati, la carenza di causali, la carenza dell’indicazione dei rischi alla salute ed all’integrità e l’adozione di misure idonee, la carenza della indicazione del luogo, della data di inizio e della durata rendono il contratto nullo ed i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti dipendenti dell’utilizzatore.

La violazione di tali obblighi e divieti è sanzionata anche dall’art. 18, comma 3.

Con l’abrogazione dell’art. 1, comma 7, della legge n. 196/1997 sparisce l’obbligo dell’invio del contratto entro dieci giorni alla Direzione provinciale del Lavoro, competente per territorio che era, prima, previsto per le società di lavoro temporaneo.

Il contratto di somministrazione può essere, a mio avviso, anche a tempo parziale: ovviamente, in questo caso, al di là di ciò che afferma il D. L.vo n. 61/2000 (profondamente modificato dall’art. 46 del decreto legislativo), durante la “missione” trovano applicazione le eventuali disposizioni migliorative previste nel contratto collettivo in uso presso l’utilizzatore.

 

ART. 22  Disciplina dei rapporti di lavoro

 

Il comma 1 richiama una disposizione di carattere generale: in caso di rapporto a tempo indeterminato i rapporti di lavoro tra i prestatori e l’agenzia di somministrazione sono regolati dalla disciplina che si applica a tutti i rapporti di lavoro subordinato e dalle eventuali leggi speciali.

Se il rapporto, invece, è a tempo determinato, trova applicazione, per quanto compatibile, la disciplina sui contratti a termine prevista dal D. L.vo n. 368/2001, con esclusione esplicita della disposizione contenuta all’art. 5, commi 3 e 4. Essa prevede (e, quindi, non si applica alla somministrazione essendo contraria alla “filosofia” che ne è alla base) che “qualora il lavoratore venga assunto a termine……. entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato” e che “quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”.

Anche la proroga è ammessa, per atto scritto e con il consenso del lavoratore, ma nei casi e per la durata prevista dal CCNL applicato dal somministratore. Vale la pena di ricordare come l’istituto della proroga nei contratti applicabili alle imprese interinali (di cui le agenzie di somministrazione sono eredi) fosse previsto per un massimo di quattro volte (nel contratto a termine è una sola volta) e per una durata complessiva non superiore a ventiquattro mesi.

L’assunzione di un lavoratore con contratto a tempo indeterminato richiede, come già per i lavoratori interinali, una indennità mensile di disponibilità. Essa è fissata nel contratto, è divisibile in quote orarie e viene corrisposta dal somministratore per i periodi che trascorre in attesa di assegnazione. La misura della stessa è stabilita dal CCNL (quello tra Assointerim e Organizzazioni sindacali la prevede all’art. 30) applicabile al somministratore e non può essere inferiore a quella indicata con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali ed aggiornata periodicamente. L’indennità di disponibilità è ridotta in proporzione, qualora il prestatore venga adibito a tempo parziale anche presso lo stesso somministratore.

L’indennità di disponibilità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o contratto collettivo e non rientra, quindi, ad esempio, nel trattamento di fine rapporto.

Con il comma 4 si entra nella tutela collettiva ed individuale in materia di licenziamento. Le disposizioni che regolano la procedura collettiva di riduzione di personale, previste dall’art. 4, della legge n. 223/1991 non trovano applicazione nei confronti del lavoratore assunto dal somministratore a tempo indeterminato ed impiegato nell’impresa utilizzatrice, allorché terminino i lavori connessi alla somministrazione. Da ciò si evince, che mentre per i lavoratori dipendenti dall’impresa utilizzatrice, in caso di crisi o riduzione dell’attività lavorativa, sono attivabili le procedure e le garanzia della legge n. 223/1991, ciò non è possibile per il prestatore dipendente dalla agenzia di somministrazione, utilizzato sullo stesso impianto. Nei confronti dello stesso trova applicazione l’art. 3 della legge n. 604/1966 sul licenziamento per giustificato motivo soggettivo e le forme di garanzia previste all’art. 12 dal Fondo per la formazione e l’integrazione del reddito.

Il comma 5 mette in chiara evidenza un vantaggio normativo scaturente dall’impiego dei prestatori con contratto di somministrazione: essi, ad eccezione di quelle relative alla materia dell’igiene e della sicurezza, non sono computati ai fini dell’applicazione di normative di legge o contratto collettivo. Ciò significa che non rientrano nel calcolo dimensionale per l’applicabilità della tutela reale o di quella obbligatoria in caso di licenziamento individuale di altri dipendenti dell’impresa utilizzatrice, che non rientrano nel computo per l’applicazione della normativa sui disabili prevista dalla legge n. 68/1999 o che non rientrano nel computo per la qualificazione di un’impresa come artigiana ai sensi della legge n. 443/1985.

L’ultimo comma si riferisce, invece, alle agenzie di somministrazione: vi si afferma che in caso di contratto di somministrazione non trova applicazione la normativa sulle assunzioni obbligatorie né quella ,eventuale (che ha sostituito la c.d. “riserva del 12%” in favore delle fasce deboli), prevista dall’art. 4 –bis, comma 3, del D. L.vo n. 181/2000, che facoltizza le Regioni a prevedere che una quota delle assunzioni effettuate dai datori di lavoro privati e dagli Enti pubblici economici sia riservata a particolari categorie di lavoratori a rischio di esclusione sociale.

 

ART. 23 Tutela del prestatore di lavoro, esercizio del potere disciplinare e regime della solidarietà

 

La disposizione ricorda come i lavoratori dipendenti dall’agenzia di somministrazione abbiano diritto ad un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte. Sono fatte salve le disposizioni previste dai contratti collettivi stipulati con le imprese di lavoro temporaneo nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia.

Quanto appena affermato trova, però, subito una eccezione: si tratta della ipotesi in cui gli stessi siano applicati secondo lo schema previsto dall’art. 13 (che ha natura sperimentale). Esso prevede la possibilità di contratti di somministrazione nell’ambito di specifici programmi di inserimento o riqualificazione a favore di soggetti svantaggiati, con il concorso delle Regioni e di altri Enti locali. La retribuzione, va ricordato per chiarezza, può essere per tutta la durata del contratto (dodici mesi e , comunque, non inferiore a nove), la somma tra il trattamento percepito a titolo di indennità di mobilità, indennità di disoccupazione o sussidio (che paga l’INPS) e la differenza (che paga il somministratore) per arrivare al trattamento economico previsto.

L’articolato continua replicando, sull’argomento, disposizioni già presenti nella legge n. 196/1997: così la solidarietà tra somministratore ed utilizzatore sulle retribuzioni e sulla contribuzione, così la possibilità che i contratti collettivi prevedano forme di partecipazione e di determinazione ai premi di produzione aziendali legati al risultato, così la possibilità di godere dei servizi sociali eventualmente presenti in azienda, ad eccezione di quelli condizionati all’anzianità o all’iscrizione ad una associazione.

Il comma 5 elenca, poi, minuziosamente una serie di oneri a carico del somministratore (trasferibili all’utilizzatore) sui rischi e la salute nel luogo di lavoro. Viene sancito l’obbligo, ove necessario, dell’addestramento e della formazione e l’utilizzatore è responsabile per la violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi.

Sull’utilizzatore incombe l’onere della comunicazione per iscritto (con copia al lavoratore) in caso di adibizione a mansioni superiori (per le quali lo stesso va retribuito). Se non lo fa risponde per le differenze retributive e per l’eventuale risarcimento del danno scaturente dall’assegnazione a mansioni inferiori.

L’esercizio del potere disciplinare, invece, incombe sul somministratore ma l’utilizzatore ha l’onere, una volta fatta la segnalazione, di indicare gli elementi che formano oggetto della contestazione per la quale vanno attivate le procedure previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970. Vale la pena di ricordare che nel contratto per i lavoratori temporanei le parti hanno dato atto che la dazione del contratto collettivo all’atto della firma dell’instaurazione del rapporto, integrasse gli estremi della conoscenza mediante”affissione in luogo accessibile a tutti” prevista dal comma 1 dell’art. 7 (cosa difficile nei rapporti interinali caratterizzati da una serie continua di utilizzatori) e che aveva portato, in alcuni casi ben definiti in altri settori, la Corte di Cassazione a sentenziare la nullità del provvedimento per vizio di forma.

Il comma 8 si sofferma sulla nullità della clausola, in caso di somministrazione a tempo determinato, tendente a vietare l’assunzione da  parte dell’utilizzatore, ma il comma 9 la ritiene possibile, qualora il contratto collettivo preveda per tale rinuncia una adeguata indennità.

 

ART. 24  Diritti sindacali e garanzie collettive

 

La disposizione ricorda che a tutti i lavoratori dipendenti dalle imprese di somministrazione e dagli appaltatori trovano applicazione le disposizioni sui diritti sindacali (di rappresentanza, di assemblea, di riunione, ecc.) previsti dalla legge n. 300/1970.

L’eccezione riguarda i soci lavoratori , la cui figura è mutata , dopo le modifiche introdotte, alla legge n. 142/2001, con l’art. 9 della legge n. 30/2003. La soppressione dell’aggettivo “distinto” al comma 3 dell’art. 1 della legge n. 142/2001 sta a significare un cambiamento di rotta: la dizione precedente privilegiava la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro rispetto a quella associativa, mentre, ora, si torna a favorire l’associazione di per sé stessa considerata. Di ciò ce se ne rende conto anche con la modifica operata al comma 1 dell’art. 2. Lo Statuto dei Lavoratori, già applicato “in toto” con la sola eccezione dell’art. 18, trova una ulteriore limitazione (ed è questo che ci interessa per l’argomento che si sta trattando) laddove si afferma che “l’esercizio dei diritti di cui al Titolo III della legge n. 300/1970, trova applicazione compatibilmente con lo stato di socio lavoratore, secondo quanto determinato da accordi collettivi tra associazioni nazionali del movimento cooperativo e organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative”.

L’articolato prosegue ribadendo alcune norma di garanzia sindacale già, a suo tempo stabilite, per i lavoratori temporanei: di qui la possibilità per il prestatore di lavoro di esercitare la propria attività sindacale e di partecipare alle assemblee del personale dell’impresa utilizzatrice, di qui la possibilità per tutti i lavoratori dipendenti dal somministratore ed utilizzati presso datori di lavoro diversi del diritto di assemblea, secondo le modalità previste dalla legge e dal contratto collettivo.

L’impresa utilizzatrice è tenuta a fornire una serie di comunicazioni alla propria rappresentanza sindacale o, in mancanza, alle strutture territoriali di categoria delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Esse riguardano:

a)                 il numero ed i motivi del ricorso alla somministrazione di lavoro prima della stipula del contratto: qualora ciò sia dettato da motivi di urgenza, l’informazione può essere fornita nei cinque giorni successivi;

b)                 il numero, i motivi, la durata e la qualifica dei lavoratori interessati: tale comunicazione avviene a consuntivo, ogni dodici mesi ed il datore di lavoro può servirsi per tale incombenza anche della propria associazione datoriale.

 

ART. 25 Norme previdenziali

 

La disposizione fornisce alcuni chiarimenti di natura tecnica concernenti l’applicazione delle disposizioni in materia previdenziale che possono così essere riepilogati:

a)                 gli oneri contributivi, previdenziali ed assistenziali sono a carico del somministratore  che è inquadrato nel settore terziario. I contributi sulla indennità di disponibilità, che spetta ai prestatori assunti a tempo indeterminato per i periodi in cui sono in attesa, sono versati per il loro effettivo ammontare, in deroga alla normativa sul minimale contributivo. Nel settore agricolo ed in quello dei servizi domestici trovano applicazione gli specifici criteri in materia previdenziale ed assistenziale a loro riferiti;

b)                 il somministratore non deve versare  al Fondo di rotazione l’aliquota contributiva prevista dall’art. 25, comma 4, della legge n. 845/1978 per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria. Tale disposizione è da mettere in relazione con il fatto che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare ai fondi per la formazione e l’integrazione del reddito il contributo previsto dall’art. 12;

c)                 nel caso in cui sussistano i presupposti individuati dal DPR n. 1124/1965 il lavoratore deve essere assicurato in relazione al tipo ed al rischio delle lavorazioni svolte. I relativi premi sono determinati in relazione al tasso applicato nell’impresa utilizzatrice per quel tipo di lavorazione, o determinati in base al tasso medio, o medio ponderato, della voce di tariffa corrispondente alla lavorazione effettuata dal lavoratore temporaneo, nel caso in cui la stessa non sia già assicurata presso il datore di lavoro utilizzatore.

 

ART. 26 Responsabilità civile

 

La disposizione afferma una responsabilità diretta dell’utilizzatore nei confronti dei terzi per i danni ad essi arrecati dal prestatore di lavoro in contratto di somministrazione durante l’esercizio delle sue funzioni.

 

ART. 27 Somministrazione irregolare

 

Qualora la somministrazione avvenga  al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, lettere a), b), c), d) ed e), il lavoratore può chiedere, con ricorso giudiziale ex art. 414 c.p.c., anche notificato soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle sue dipendenze, con effetto dall’inizio della somministrazione.   

La disposizione si presta ad alcuni chiarimenti.

Ci si trova di fronte ad un ipotesi di somministrazione irregolare che può essere tale sia da un punto di vista soggettivo (somministratore non autorizzato) che da un punto di vista oggettivo (assenza delle causali previste) che, da un punto di vista formale (da qui il riferimento alle lettere da a) ad e) dell’art. 21). Il lavoratore può chiedere la costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore soltanto attivando la via giudiziale, cosa che sembra escludere un intervento autoritativo da parte degli organi ispettivi di vigilanza. Quindi, il rapporto può essere costituito soltanto se, preceduto da un atto di iniziativa dell’interessato: tale “filosofia” appare in linea con una serie di disposizioni, uscite negli ultimi anni (si pensi al D. L.vo n. 61/2000 sui contratti a tempo parziale, al D. L.vo n. 368/2001 sui contratti a termine), che postulano la richiesta esplicita del ricorrente per avere un riconoscimento del diritto.

Il ricorso al Tribunale in funzione di giudice del lavoro deve essere preceduto, necessariamente, dal tentativo obbligatorio di conciliazione che va espletato nei sessanta giorni successivi alla presentazione dell’istanza, presso la commissione provinciale di conciliazione istituita nella sede della Direzione provinciale del Lavoro, o in sede sindacale.

C’è, poi, da sottolineare una diversa conseguenza sul piano pratico tra quanto previsto da questo articolo e quanto affermato all’art. 21, comma 4 e sul quale, forse, è necessario qualche ulteriore approfondimento. Qui, come si è visto, la carenza  delle lettere a) (estremi dell’autorizzazione), b) (numero dei lavoratori da somministrare), c) (causali e ragioni), d) (indicazione dei rischi eventuali per l’integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione), ed e) (data di inizio e durata prevista), abilita il lavoratore alla richiesta giudiziale, lì (art. 21, comma 4) il contratto per le stesse carenze è nullo ed i prestatori sono considerati direttamente ed a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore.

Il comma 2 afferma, poi, che tutti i pagamenti comunque effettuati dal somministratore, come retribuzione o contribuzione, liberano il soggetto che ha goduto della utilizzazione fino alla concorrenza della somma effettivamente pagata e, al contempo, tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo in cui ha avuto luogo la somministrazione, si intendono compiuti  dal soggetto utilizzatore. Questo significa che, nei confronti del soggetto utilizzatore non dovrebbe essere possibile, ad esempio, applicare la sanzione amministrativa per la mancata comunicazione di assunzione ai servizi per l’impiego se a ciò ha provveduto, a suo tempo, chi aveva effettuato la somministrazione.

L’ultimo comma limita i poteri del giudice in ordine all’accertamento delle causali  delle ragioni alla base, rispettivamente, del contratto di somministrazione a tempo indeterminato ed a tempo determinato: esso è limitato all’accertamento della esistenza delle ragioni che lo giustificano e non può essere esteso al merito: in sostanza, il Legislatore delegato afferma che sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive, proprie del potere imprenditoriale, la parola spetta unicamente all’utilizzatore.

 

Art. 28 Somministrazione fraudolenta

 

L’ipotesi richiamata si ravvisa allorchè la somministrazione di lavoro è posta in essere con la finalità specifica di eludere l’applicazione di norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. In questo caso, ferme restando le sanzioni previste dall’art. 18 che sono di natura penale e che sono integralmente richiamate, il somministratore e l’utilizzatore sono colpiti da una ulteriore ammenda che è pari a 20 euro per ciascun lavoratore interessato e per ogni giorno di somministrazione.

 Come si vede dal semplice esame della disposizione per la sussistenza di tale fattispecie occorre l’intenzionalità ed il dolo specifico finalizzato all’utilizzazione dell’istituto contro le disposizioni di legge o della pattuizione collettiva.

 

CAPO II

Appalto e distacco

 

ART. 29 Appalto

 

Quando si parla di contratto di appalto si fa riferimento all’art. 1655 c.c. ove  esso è definito un contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro. E su questi due requisiti la giurisprudenza di merito e di legittimità ha posto, più volte, il proprio accento.

Tale richiamo si è reso necessario in quanto il primo comma afferma che, per l’applicazione delle disposizioni contenute in tutto il Titolo III il contratto di appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro (a tempo determinato od indeterminato) per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte dell’appaltatore, del rischio d’impresa.

Da ciò emerge la fondamentale distinzione tra appalto e somministrazione: in quest’ultima il potere direttivo ed organizzativo risulta in capo al datore di lavoro utilizzatore.

Altre due osservazioni si rendono necessarie, comparando la nuova disciplina al vecchio art. 3 della legge n. 1369/1960.

La prima è che il comma 1 distingue soltanto tra appalto d’opera o di servizi ed elimina qualsiasi distinzione tra appalto all’interno o all’esterno del ciclo produttivo quale risultava nella vecchia disposizione, la seconda è che è scomparso il riferimento alla parità di trattamento con gli altri dipendenti dell’impresa appaltante.

Il secondo comma affronta, invece, il problema della solidarietà tra committente ed appaltatore, limitatamente all’appalto di servizi. C’è solidarietà nella corresponsione dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali dovuti, entro il limite di dodici mesi dalla cessazione dell’appalto stesso.

Nulla si dice, invece, per l’appalto di opere: da ciò si dovrebbe dedurre la piena applicazione dell’art. 1676 c.c. il quale  afferma  che “coloro i quali, alle dipendenze dell’appaltatore, hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o per prestare il servizio possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”.

Con il terzo comma il Legislatore delegato si preoccupa di quelle situazioni in cui (si pensi  al settore delle pulizie o a quello della ristorazione aziendale) si verifica, sovente, un subentro: l’acquisizione del personale già impiegato non costituisce trasferimento di azienda o di parte di azienda. Da ciò ne discende la non applicabilità delle procedure previste dall’art. 47 della legge n. 428/1990, peraltro modificata dal D. L.vo n. 18/2001.

Un argomento interessante, degno di approfondimento, è rappresentato dalla correlazione tra questa disposizione e la legge n. 192/1998 che ha disciplinato il contratto di sub – fornitura. Questa norma nasce con lo scopo, soprattutto, di “normare” i rapporti tra due imprenditori  nell’ambito delle loro attività tipiche, cosa che presuppone una organizzazione del sub - fornitore il quale si impegna, per conto del committente, ad effettuare lavorazioni su prodotti semi lavorati o su materie prime o si impegna a fornire prodotti o servizi destinati ad essere incorporati od utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente. E’ chiaro che ci si trova di fronte ad un possibile decentramento produttivo ed è, altrettanto, chiaro che il sub – fornitore deve avere una reale organizzazione imprenditoriale e non essere soltanto fornitore di manodopera, senza l’assunzione di alcun rischio (connotato essenziale dell’attività d’impresa). L’eliminazione della distinzione tra “appalto interno” ed “appalto esterno” al ciclo produttivo, con la sola distinzione (comma 1) tra “opera o servizio”, fa sì che il sub – fornitore possa impiegare mezzi ed attrezzature del committente (cosa che si deduce anche dall’art. 5, comma 2, della legge n. 192/1998). Ciò che, a mio avviso, rileva anche per evitare un uso “distorto” della norma è che l’imprenditore sub –fornitore deve essere reale ed autonomo, avere una propria organizzazione e propri mezzi finanziari e rischiare personalmente, atteso che la fornitura di personale anche a tempo indeterminato (“staff leasing”) può essere fatta soltanto dai soggetti autorizzati. Si può affermare che possa ricorrere l’ipotesi della somministrazione fraudolenta (art. 28) o irregolare (art. 27) tutte le volte in cui l’apporto dei mezzi e delle attrezzature del committente nei confronti del sub –fornitore (che, si ripete, non è un soggetto autorizzato od accreditato) ha un rilievo spropositato nell’economia complessiva del contratto.

 

ART. 30 Distacco

 

Con questa disposizione viene definito un istituto, quello del distacco, che, da un punto di vista normativo, aveva trovato un’unica disciplina (peraltro, come vedremo, del tutto particolare) nell’art.8, comma 3, della legge n. 236/1993.

Si ha la figura del distacco, la cui caratteristica principale è la temporaneità, quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, mette uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. La definizione riprende i due requisiti già individuati dalla giurisprudenza di legittimità che ritenne possibile (Cass., 21 maggio 1998, n. 5102) il distacco come figura compatibile in presenza di un interesse ed una temporaneità. Su tale linea si mosse anche il Ministero del Lavoro con la nota n. 5/25814/70/VA dell’8 marzo 2001 che ritenne, pur in assenza di un preciso disposto normativo, legittimo il comando o distacco di un lavoratore fra società collegate.

In caso di distacco il datore di lavoro resta responsabile nei confronti dei propri dipendenti per quel che concerne il trattamento economico e normativo: la disposizione non lo dice, ma  appare evidente che la responsabilità resta anche per quel che concerne la contribuzione.

Se il distacco comporta un mutamento delle mansioni, ciò può avvenire soltanto con il consenso dell’interessato. Par di capire, conseguentemente, che se le mansioni sono le stesse il distacco possa avvenire per scelta unilaterale del datore di lavoro.

C’è, poi, l’ipotesi del distacco ad una unità produttiva ubicata a più di 50 Km. dalla sede di attività. Ciò può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive. Così come è scritta (unità produttiva) la disposizione sembra riferirsi  non ad un altro soggetto distinto, ma ad una struttura della stessa impresa distaccataria ed, inoltre, sembra postulare un provvedimento ben motivato (si parla di esigenze comprovate). Per completezza di informazione va ricordato che per unità produttiva si intende ogni articolazione dell’impresa in tutto od in parte idonea ad espletare l’attività.

L’ultimo comma fa salva la specifica disciplina del distacco prevista dall’art. 8, comma 3, della legge n. 236/1993, in base alla quale “gli accordi sindacali, alfine di evitare riduzioni di personale, possono regolare il comando od  il distacco di uno o più lavoratori da un’impresa ad un’altra per una durata temporanea”. Sul punto il Ministero del Lavoro, con circolare n. 4 del 18 gennaio 1994, fatta propria, successivamente, dall’INPS con la circolare n. 81 del 9 marzo 1994, stabilì che l’obbligo contributivo continuava a gravare sull’azienda cedente a cui si doveva far riferimento per la classificazione previdenziale.

Per completezza di informazione va ricordato, infine,  il D. L.vo n. 72/2000 che, dando attuazione alla direttiva 96/71/CE in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, ha regolamentato il distacco in territorio italiano di prestatori dipendenti da imprese stabilite in Stato membro dell’Unione Europea, diverso dall’Italia. La disciplina è rimasta uguale per quel che concerne sia le condizioni di lavoro (art. 3) che la singolarità della procedura di conciliazione per eventuali controversie di natura economica la quale “by-passa” l’obbligatorietà del tentativo ex art. 410 c.p.c., qualora ci si rivolga alla magistratura italiana (art. 6).

  

TITOLO IV

Disposizioni in materia di gruppi di impresa e trasferimento d’azienda

 

ART. 31 Gruppi di impresa

 

Con questa disposizione si consente ai gruppi d’impresa ed  ai consorzi, ivi compresi quelli costituiti in forma cooperativa, individuati dall’art. 27 del D.L.vo CPS n. 1577/1947, di delegare lo svolgimento degli adempimenti connessi al rapporto di lavoro, rispettivamente, alla società capogruppo o ad una consorziata o nel caso dei consorzi di gestirli direttamente in nome e per conto delle cooperative associate. Si tratta di quegli adempimenti, previsti dalla legge n. 12/1979, riservati ai consulenti del lavoro ed ai professionisti equiparati, in materia di previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti. Ovviamente, le obbligazioni di legge e contrattuali rimangono in capo alle singole società datrici di lavoro.

Per completezza di informazione vale la pena di ricordare la definizione di gruppi di impresa che si evince dall’art. 2359 c.c. . Sono considerate società controllate e, quindi, facenti parte dello stesso gruppo:

a)                 le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

b)                 le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

c)                 le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Per l’applicazione di quanto appena affermato si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e ad interposta persona; non vanno computati i voti per conto terzi. Si considerano controllate quelle società in cui si ravvisa un’influenza notevole che si presume allorchè nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti, o un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.

La deroga alle competenze dei consulenti del lavoro stabilita in questo articolo è diversa, ad esempio, da quella prevista per le imprese artigiane e per gli altri piccoli datori di lavoro che possono affidare l’esecuzione a servizi o centri di assistenza delle loro associazioni categoriali, purchè tali servizi siano organizzati attraverso consulenti del lavoro, anche dipendenti delle associazioni.

 

ART. 32  Modifica all’art. 2112, comma quinto, del Codice Civile

 

Come è noto la normativa sui trasferimenti di azienda è stata oggetto di disciplina con la legge n. 428/1990, la quale modificò l’originario art. 2112 c.c., e con il D. L.vo n. 18/2001 con il quale fu data attuazione alla direttiva 98/50 CE. Ora, il Legislatore delegato torna sull’argomento: per completezza di informazione credo che sia necessario fare un breve quadro riassuntivo, anche per capire ove si inseriscono le novità e quali tra le disposizioni amministrative emanate, a suo tempo, dal Ministero del Lavoro (nota n. 56/26570/70/ Trasf. d'az. del 31 maggio 2001) sono, tuttora valide.

Il comma 1 dell’art. 2112 c.c. non è cambiato ed afferma che, in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.

Il comma successivo fa riferimento alla solidarietà tra cedente e cessionario ed al fatto che il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dall’ intercorso rapporto di lavoro con la sottoscrizione di una transazione in sede sindacale o avanti alla commissione provinciale di conciliazione delle controversie di lavoro, ubicata presso la Direzione provinciale del Lavoro.

Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione, anche aziendale, vigente fino alla scadenza, a meno che non siano sostituiti da altro contratto collettivo, dello stesso livello, applicato nell’impresa del cessionario.

Il trasferimento d’azienda non costituisce, di per sé, motivo di licenziamento ed il lavoratore le cui condizioni di lavoro subiscono, per effetto del trasferimento, una sostanziale modifica, può rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa (con tutto quello che ciò può comportare). Sul punto, il Ministero del Lavoro ha affermato che la “sostanziale modifica” deve realizzarsi a svantaggio del lavoratore e perciò stesso comporta l’applicazione dell’art. 1229 c.c., con la conseguenza che rientrano nella fattispecie legale soltanto le dimissioni motivate da un complessivo peggioramento delle condizioni di lavoro.

La modifica legislativa dell’art. 30 riguarda il comma 5 dell’art. 2112 c.c..

“Per trasferimento di azienda si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto dei azienda. Le disposizioni trovano applicazione anche al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.  

Essa si inserisce nell’ambito dei principi stabiliti dalla direttiva 2001/23/CE che ha come obiettivo il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri finalizzate al mantenimento dei diritti dei lavoratori nelle ipotesi di trasferimento delle aziende o di parte di esse: si tratta, in sostanza, di razionalizzare i processi di “esternalizzazione”.

Ma come viene realizzato tutto ciò e, soprattutto, quali sono le novità rispetto alla precedente disciplina?

La prima novità riguarda l’autonomia funzionale: il vecchio testo richiedeva che la stessa fosse “preesistente” al trasferimento, il nuovo, parlando di “identità”, afferma che la valutazione va fatta nel momento del trasferimento, prescindendo dalla tipologia contrattuale adoperata, comprendendo in essa anche l’usufrutto o l’affitto.

La seconda novità concerne la valutazione della sussistenza del requisito dell’autonomia: prima la norma non diceva nulla, ora afferma che tale valutazione va fatta dai due soggetti contraenti, il cedente ed il cessionario.

Il secondo comma dell’art. 32 aggiunge un’appendice all’art. 2112 c.c. che disciplina l’ipotesi in cui il contratto di appalto sia connesso alla cessione di un ramo di azienda. Vi si afferma che, in questo caso, tra appaltante ed appaltatore opera un regime di solidarietà ex art. 1676 c.c., il quale afferma che “coloro che alle dipendenze dell’appaltatore hanno dato la loro attività per eseguire l’opera o per prestare il servizio, possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”. Par di capire che ciò configuri una responsabilità solidale delle due imprese nei confronti di tutti i lavoratori in “outsourcing”, anche per i crediti sorti dopo il trasferimento.

Per quanto riguarda, invece, la procedura di consultazione sindacale attraverso la quale “passa” il trasferimento d’azienda, nulla è cambiato: trova applicazione l’art. 47 della legge n. 428/1990 (modificato, in parte, dall’art. 2 del D.L.vo n. 18/2001),  in base al quale, allorchè lo stesso interessi più di quindici dipendenti (nel computo non rientrano gli apprendisti, gli assunti con contratto di formazione e lavoro, gli assunti con contratto di reinserimento, i lavoratori socialmente utili, ecc.), il cedente ed il cessionario ne devono dare comunicazione per iscritto alle organizzazioni sindacali aziendali o, in mancanza, alle strutture territoriali, almeno venticinque giorni prima che sia perfezionato l’atto o sia raggiunta un’intesa vincolante.  Il contenuto dell’informativa deve riguardare la data del trasferimento, le motivazioni, le conseguenze giuridiche per i lavoratori e le eventuali misure previste nei loro confronti, atteso che per coloro che non passano alle dipendenze esiste un diritto di precedenza nelle assunzioni del subentrante per un periodo di dodici mesi. A mio avviso, la modifica con il comma 4 del D. L.vo n. 297/2002 attraverso la quale è stato abbassato da dodici a sei mesi l’arco temporale per l’esercizio del diritto di precedenza nel caso in cui un lavoratore sia stato licenziato per giustificato motivo oggettivo o per riduzione collettiva di personale, non riverbera i propri effetti su questa disposizione che è speciale e riguarda un diritto all’assunzione presso l’azienda subentrante e non, come negli altri casi, di cui si è occupata la norma appena citata, la riassunzione presso il medesimo datore di lavoro.

Tre questioni, su questo argomento, furono affrontate e risolte dalla nota ministeriale sopra richiamata. La prima riguardava l’onere della informativa sindacale: esso va assolto “prima che i lavoratori vengano lesi dal trasferimento nelle loro condizioni di impiego e di lavoro”. La seconda concerneva la decorrenza dei venticinque giorni: il “dies a quo” va individuato nella data in cui il contratto traslativo viene registrato, in quanto dalla iscrizione discendono gli effetti conoscitivi nei confronti dei terzi. La terza faceva riferimento al concetto di “atto vincolante”: esso è quello ove le parti hanno manifestato una volontà “immodificabile” e, conseguentemente, non è da ritenersi tale, ad esempio, una delibera assembleare di cessione (che può essere modificata od impugnata) o lo stesso “contratto preliminare”.

Per completezza di informazione va ricordato che la normativa generale sul trasferimento del personale riguarda anche i dirigenti per i quali, tuttavia, la contrattazione collettiva di riferimento (es. settori industriali e terziario) prevede alcune garanzie particolari riferite alla risoluzione del rapporto di lavoro nei sei mesi successivi (con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso) o a quella scaturente dalla mancata accettazione del trasferimento.

Su richiesta delle associazioni sindacali,  va espletato un incontro, nei sette giorni successivi, tra tutte le parti interessate: la procedura si intende esaurita qualora, trascorsi dieci giorni, non sia stato raggiunto alcun accordo.

 

 

TITOLO V

Tipologie contrattuali a orario ridotto, modulato o flessibile

 

CAPO I

Lavoro intermittente

 

ART. 33  Definizione e tipologie

 

Con gli articoli compresi tra il 33 ed il 40, il Legislatore delegato introduce nel nostro ordinamento, in esecuzione di quanto previsto nella legge n. 30/2003, il contratto di lavoro intermittente (c.d. “contratto a chiamata” o “job an call”) che, già dal nome, appare caratterizzato da una forte dose di flessibilità. Esso è definito come un contratto di lavoro subordinato mediante il quale il prestatore si pone a disposizione di un datore di lavoro il quale lo può utilizzare nei limiti individuati dall’art. 34.

Il contratto può essere stipulato anche a tempo determinato: ovviamente, in questo caso, trova applicazione, per quel che concerne le causali, la disciplina specifica prevista dal D. L.vo n. 368/2001.

Uno degli scopi che sono alla base della nuova tipologia, sembra ravvisarsi nella necessità di ricondurre a prestazioni di lavoro subordinato, situazioni lavorative per le quali, sinora, si è fatto ricorso a “fatturazioni” per lavori autonomi che non presentano affatto tale caratteristica.

 

Art. 34 – Casi di ricorso al lavoro intermittente

 

Quando può essere concluso un contratto di lavoro intermittente?

La disposizione parla di prestazioni a carattere discontinuo od intermittente individuate dalla contrattazione collettiva delle associazioni datoriali e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale (con possibilità, quindi, di accordi a livello locale) o, in via provvisoriamente sostitutiva, con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali,  da emanarsi entro i sei mesi successivi all’entrata in vigore della nuova normativa (ossia entro il 24 aprile 2003).

Anche qui, come già in altre parti del provvedimento, l’autorità amministrativa si candida a sostituire, sia pure provvisoriamente, le parti sociali: tale potere di surroga va, indubbiamente, visto come un pungolo alle stesse a disciplinare la materia.

In via sperimentale (la valutazione finale va fatta dopo diciotto mesi, secondo la procedura delineata dall’art. 86, comma 12) il contratto a chiamata può essere concluso anche per soggetti con meno di venticinque anni disoccupati o da lavoratori con oltre quarantacinque anni espulsi dai processi produttivi ed “iscritti nelle liste di mobilità o di collocamento”.

Così come è scritta la norma merita una qualche riflessione.

La prima è che la fase “sperimentale” riguarda anche i giovani di età inferiore ai venticinque anni in cerca di occupazione per i quali  vale la definizione adottata dall’art. 1, comma 2, lettera b) del D. L.vo n. 297/2002 che ha sostituito l’art. 1 del D. L.vo n. 181/2000. La norma, tuttavia, è più restrittiva in quanto esclude quei soggetti (per definizione “giovani”) fino a ventinove in possesso del diploma di laurea universitario.

La seconda riguarda il concetto di “stato di disoccupazione”: è sempre la disposizione appena citata che alla lettera c) definisce lo stesso come “la condizione del soggetto privo di lavoro, che sia immediatamente disponibile allo svolgimento ed alla ricerca di un’attività lavorativa secondo le modalità definite con i servizi competenti”. Da ciò si deduce che non è necessario uno stato di “disoccupazione o di inoccupato di lunga durata” che si protragga per oltre dodici mesi o, se si è giovani, permanga per più di sei mesi.

La terza riflessione riguarda gli ultra quarantacinquenni: si parla di soggetti espulsi dai processi produttivi (quindi, dopo una procedura collettiva di riduzione di personale) o iscritti nelle liste di mobilità o di collocamento. Le liste di mobilità, previste dall’art. 6 della legge n. 223/1991, unitamente a quelle del personale artistico (art. 1 del D. L.vo n. 2053/1963) e dei disabili (art. 8 della legge n. 68/1999) sono le uniche che si sono salvate dalla soppressione prevista dall’art. 2 del D. L.vo n. 297/2002. In esse confluiscono i lavoratori licenziati al termine delle procedure collettive di riduzione di personale, i lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo nelle imprese sottodimensionate alle quindici unità ed i lavoratori già impegnati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità.

La quarta riflessione riguarda l’iscrizione “alle liste di collocamento”: la dizione adoperata dal Legislatore delegato appare impropria, atteso che il comma 3 dell’art. 2 del D. L.vo n. 297/2002 le ha soppresse sostituendole con un mero elenco anagrafico dei disponibili alla ricerca di un’attività lavorativa secondo le modalità di politica attiva individuate dai centri per l’impiego.

La quinta considerazione concerne la immediata operatività della norma per le due categorie di lavoratori interessati: stando al tenore letterale della norma sembra ipotizzarsi la possibilità che il contratto a chiamata sia ammesso a prescindere dalle causali. 

La sesta riflessione riguarda la possibilità non esclusa “a priori” (anche se, nel concreto, potrebbero verificarsi difficoltà operative) di poter stipulare contratti di lavoro intermittente con più datori di lavoro.

Il comma 3 stabilisce in quali casi è vietato il ricorso al lavoro intermittente. Essi sono del tutto simili a quelli già individuati, in precedenza, dal Legislatore sia per il lavoro interinale che per i contratti a tempo determinato:

a)                 per la sostituzione di lavoratori in sciopero;

b)                 salva diversa disposizione degli accordi sindacali presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, nei sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a chiamata ovvero presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti od una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni. Anche in questo caso è opportuno qualche chiarimento. Il primo riguarda la derogabilità della disposizione attraverso accordi sindacali: il divieto c’è a meno che esso non sia “tolto” con un accordo collettivo. La seconda riflessione riguarda il limite dei sei mesi: essa è speculare con quanto affermato dall’art. 6 del D. L.vo n. 297/2002 che al comma 4, ha ridotto i termini per i diritto di precedenza in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo da dodici  a sei mesi e che, poi, ha riverberato i propri effetti anche sull’art. 8 della legge n. 223/1991 che riguarda i lavoratori in mobilità al termine di procedure collettive di riduzione di personale. Il terzo chiarimento riguarda le mansioni: qui si parla di “stesse mansioni” e ciò potrebbe significare l’agibilità di ipotesi nelle quali le mansioni siano simili ma non le “stesse”. La quarta riflessione concerne il divieto di adibizione dei lavoratori a chiamata in quelle realtà produttive nelle quali vi sia “per le stesse mansioni” il ricorso ad un orario ridotto, con trattamento di integrazione salariale. Così come è scritta la disposizione esclude il ricorso soltanto allorchè vi sia un intervento integrativo salariale sia ordinario che straordinario o vi siano in corso contratti di solidarietà difensiva che, comunque, comportino un esborso da parte dell’INPS;

c)                 da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’rt. 4 del D. L.vo n. 626/1994 e successive modificazioni.

 

ART. 35 Forma e comunicazioni

 

Il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato in forma scritta “ad probationem” e deve contenere alcuni elementi essenziali:

a)                 indicazione della durata e delle ipotesi (stabilite dai contratti collettivi o, in via sostitutiva, dal decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali) che ne consentono la stipula;

b)                 il luogo e la modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del preavviso di chiamata che non può, in ogni caso, essere inferiore ad una giornata lavorativa (con esclusione, quindi, delle domeniche e delle festività nazionali);

c)                 il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore e la relativa indennità di disponibilità, ove prevista, nel rispetto di quanto previsto all’art. 36. La norma non lo dice espressamente, tuttavia, si ha motivo di ritenere come per la parte economica e normativa non si possa che far riferimento al contratto collettivo applicato presso l’azienda ed al livello professionale corrispondente alle mansioni che si vanno ad eseguire. Ciò lo si ricava da quanto affermato al successivo comma 2 ove si afferma che le parti devono recepire le indicazioni contenute nei contratti collettivi, ove previste (e la retribuzione è, senz’altro, prevista) per tutti gli elementi individuati nelle lettere da a) ad f). L’inciso “ove prevista” fa ritenere possibile una ipotesi di mancata previsione dell’indennità di disponibilità: la conseguenza di ciò è che, in tale ipotesi, il lavoratore è libero di non  rispondere alla chiamata;

d)                 indicazione delle forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a chiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro, nonché delle modalità di rilevazione della prestazione;

e)                 i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità;

f)                   le eventuali misure specifiche di sicurezza necessarie per lo svolgimento dell’attività.

L’ultimo comma dell’art. 35 stabilisce un diritto di informazione nei confronti delle rappresentanze sindacali aziendali, qualora costituite: la cadenza, fatte salve previsioni più favorevoli previste nella contrattazione collettiva, è annuale e riguarda sia il numero che la tipologia (così è da intendere il riferimento “all’andamento”).

Un ulteriore chiarimento va effettuato circa le comunicazioni da effettuare ai servizi per l’impiego ed agli Istituti previdenziali: è chiaro che ci si trova di fronte ad un lavoratore dipendente per il quale tutte le comunicazioni “di rito” (contestuali, allorchè sarà emanato il “modello unificato”, ma ora, nei cinque giorni successivi all’assunzione) vanno effettuate.

 

ART. 36 Indennità di disponibilità

 

La disponibilità ad essere chiamati va “monetizzata” (è questa la regola generale da cui discende, in caso di corresponsione, l’obbligo della c.d. “risposta”) e la norma afferma che nel contratto di lavoro intermittente essa è stabilita in misura mensile, divisibile in quote orarie, e deve essere corrisposta per i periodi nei quali il lavoratore è “in parcheggio” garantendo la propria disponibilità. Il “quantum” deve essere stabilito dai contratti collettivi, comunque, non può essere inferiore a quanto il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali stabilisce (con aggiornamenti periodici) dopo aver consultato le organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale. Come si vede, anche qui l’azione amministrativa è finalizzata a recuperare eventuali ritardi della pattuizione collettiva. Il versamento contributivo sulla indennità di disponibilità è per l’effettivo ammontare, senza il rispetto della norma sui minimali contributivi.

La previsione contenuta al comma 3 secondo la quale l’indennità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo, fa sì che essa non rientri, ad esempio, nel trattamento di fine rapporto e nelle mensilità aggiuntive.

Un altro aspetto dell’indennità di disponibilità che va considerato riguarda l’impossibilità temporanea del lavoratore a rispondere alla chiamata del datore. E’ il caso della malattia o di altro fatto impeditivo ascrivibile alla sfera personale del prestatore: ciò comporta la tempestiva comunicazione dello “status” al datore ed ha come conseguenza l’interruzione temporanea del diritto alla indennità.

Ma cosa succede se il lavoratore non adempie a tale onere? La norma (comma 5) prevede la perdita del diritto all’indennità per quindici giorni, fatto salvo l’eventuale diversa previsione del contratto individuale il quale potrebbe prevedere anche conseguenze ben diverse.

Ovviamente, quanto appena riportato si applica soltanto nella ipotesi in cui il lavoratore, con la sottoscrizione del contratto, si sia obbligato  a rispondere alla chiamata del datore. Il rifiuto ingiustificato (e qui, la contrattazione e la prassi dovranno ipotizzare la casistica esimente) può avere conseguenze di diverso tipo che vanno dalla risoluzione del contratto, alla restituzione della quota dell’indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto, al risarcimento del danno nella misura fissata dal contratto collettivo o da quello individuale.

L’ultimo comma fa riferimento ad un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali “concertato” con quello dell’Economia e Finanze (ma il testo, a differenza di altre ipotesi, non prevede un termine per l'emanazione), con il quale verrà stabilita la misura della retribuzione convenzionale in riferimento alla quale i lavoratori intermittenti potranno versare la differenza contributiva per i periodi in cui abbiano percepito una retribuzione inferiore rispetto a quella convenzionale o abbiano usufruito dell’indennità di disponibilità fino a concorrenza.

 

ART. 37 Lavoro intermittente per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno

 

L’art. 37 pone l’accento su alcune ipotesi particolari nelle quali, presumibilmente, il contratto a chiamata potrebbe essere più adoperato: mi riferisco ai c.d. “contratti week-end”, alle ferie estive, ai periodi natalizi e pasquali. In tali casi (ci si deve, ovviamente, trovare in presenza di contratti sottoscritti unicamente per i periodi considerati) l’indennità di disponibilità è corrisposta soltanto se il datore di lavoro effettua la chiamata. La norma continua affidando alla contrattazione collettiva nazionale o territoriale la possibilità di stabilire ulteriori periodi predeterminati.

Una riflessione si rende opportuna: ferma restando la possibilità di un orientamento diverso da parte di eventuali chiarimenti amministrativi che dovessero pervenire, ritengo che il datore di lavoro ed il lavoratore possano stipulare un contratto di lavoro intermittente per tali periodi, senza attendere le previsioni della contrattazione collettiva richieste dal comma 1 dell’art. 34.

 

ART. 38 Principio di non discriminazione

 

Con tale disposizione, dopo l’ovvio richiamo ai divieti di qualunque discriminazione sul posto di lavoro, si afferma che il lavoratore deve ricevere per la prestazione svolta un trattamento economico e normativo “complessivamente” non inferiore a quello di un altro dipendente, dello stesso livello, a parità di mansioni svolte. Ciò significa che, in proporzione (principio del “pro rata temporis”, presente anche nei rapporti a tempo parziale), spettano allo stesso anche le eventuali somme integrative disposte a livello aziendale, anche correlate al raggiungimento di obiettivi d’impresa. Ciò lo si evince anche dal comma 2 ove si ricorda che il trattamento economico e previdenziale deve essere riproporzionato sulla base della prestazione lavorativa svolta, sia per la retribuzione globale che per le singole componenti, che per le ferie, i trattamenti di malattia e di infortunio sul lavoro, per la maternità e le malattie professionali e per i congedi parentali.

Durante il periodo di disponibilità non matura alcun trattamento economico e normativo, né è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati (si pensi, ad esempio, alla fruizione di servizi sociali all’interno dell’impresa), tranne, ovviamente, la prevista indennità.

 

ART. 39 Computo del lavoratore intermittente

 

Il lavoratore a chiamata va computato nell’organico dell’impresa, ai fini previsti dalla normativa vigente per l’applicazione di particolari istituti, in proporzione all’orario di lavoro svolto effettivamente: il calcolo va riferito al semestre. La norma non specifica quale ma esso va inteso, come già in altri provvedimenti legislativi che prendono in considerazione computi numerici, riferito ai sei mesi antecedenti.

Da quanto appena detto emerge che il dipendente (sempre, ovviamente, in proporzione all’orario effettuato) va preso in considerazione anche per i limiti dimensionali previsti dalla legge n. 108/1990 sui licenziamenti individuali, dalla legge n. 223/199 sull’intervento  integrativo salariale o sulle procedure collettive di riduzione di personale, dalla legge n. 68/1999 sulle quote d’obbligo riservate ai lavoratori disabili e dalla legge n. 443/1985 sulle imprese artigiane.

Ovviamente, quando si parla di computo il pensiero va anche alla normativa sulle assunzioni incentivate previste sia dall’art. 8, comma 9, della legge n. 407/1990 che dall’art. 7 della legge n. 388/2000, come modificata dalla legge n. 289/2002. A mio avviso, alla nuova fattispecie contrattuale non sono applicabili i benefici, anche di natura fiscale, previsti dalle due disposizioni appena citate, in quanto, fermi restando gli specifici requisiti soggettivi (“status disoccupativo” da oltre ventiquattro mesi per la prima, più di venticinque anni e assenza di contratti a tempo indeterminato nell’ultimo biennio per la seconda) tale contratto sembra non corrispondere a ciò che si richiede in tali fattispecie (contratto a tempo indeterminato, sia pure parziale, incremento occupazionale, ecc.). Il contratto a chiamata, che ha natura discontinua ed intermittente, sembra caratterizzato da episodicità, legata alle esigenze del datore di lavoro, e non dalla continuità.

 

ART. 40 Sostegno e valorizzazione dell’autonomia collettiva

 

La norma contenuta nell’art. 40 ha una funzione programmatica e delinea, in un certo senso, il percorso che il Ministro del Welfare è tenuto a seguire nel caso in cui le parti sociali non siano giunte ad un accordo sia per la individuazione delle causali specifiche previste dall’art. 34 che per gli eventuali ulteriori periodi predeterminati di cui si parla all’art. 37 riferiti alla settimana, al mese o all’anno. Trascorsi cinque mesi dall’entrata in vigore del provvedimento delegato, il Ministro convoca le parti ed assicura tutto il proprio impegno per il raggiungimento dell’accordo. Qualora ciò non avvenga neanche nei successivi quattro mesi e lui stesso ad individuare in via provvisoria i casi in cui è ammissibile il lavoro a chiamata. Ovviamente, nella sua attività determinativa dovranno essere seguiti alcuni parametri: il primo è rappresentato dalle eventuali indicazioni contenute nell’accordo interconfederale stipulato ex art. 86, comma 13, il secondo dalle opinioni prevalenti espresse dalle parti interessate. Il riferimento al comma 13 dell’art. 86 ha una valenza di carattere generale che prescinde dal solo art. 40: infatti entro i 5 giorni successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo, il Ministro convoca le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale per verificare la possibilità di affidare alla contrattazione interconfederale la gestione della messa a regime del provvedimento, sia per quanto riguarda il regime transitorio che per i rinvii agli accordi collettivi.

 

 

CAPO II
Lavoro ripartito

 

ART. 41 Definizione e vincolo di solidarietà

Già con la circolare n. 43 del 7 aprile 1998 il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali aveva chiarito alcuni dubbi circa la disciplina giuridica del “job sharing” o “lavoro in coppia” attribuendo allo stesso piena legittimità nel nostro ordinamento giuridico e distinguendolo chiaramente dal contratto a tempo parziale, allora disciplinato dalla legge n. 863/1984. Sorto negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta del secolo scorso e riconosciuto nella legislazione di molti paesi europei, il lavoro in coppia è, come istituto, riconducibile alla tendenza di una modernizzazione del diritto del lavoro.

Non si è in presenza, infatti, di una pura e semplice divisione di un posto di lavoro a tempo pieno in due contratti a tempo parziale, ma ci si trova di fronte ad un lavoro ripartito che, in linea di principio, appare vantaggioso sia per le imprese che per i lavoratori. Chiaramente, non si può fare un discorso di carattere generale e la norma va rapportata ai casi concreti. I vantaggi per i datori di lavoro sono riconducibili alla maggiore intensità e produttività del lavoro (almeno da un punto di vista teorico) ed alla riduzione dell'assenteismo per malattia, quelli per i lavoratori (tra i quali occorre un indubbio affiatamento) vanno correlati ad una migliore gestione dei tempi di vita  di lavoro.

La dizione operata dal Legislatore delegato non esclude affatto la possibilità che il “lavoro ripartito” possa essere oltre che a tempo indeterminato, anche a termine, nel rispetto delle causali previste dal D. L.vo n. 368/2001 e dagli accordi relativi.

Dopo il 1998 la contrattazione collettiva ha disciplinato in molti contratti l’istituto ed ora interviene la legge che definisce il contratto di lavoro ripartito uno speciale contratto con il quale due soggetti assumono in solido l’adempimento di una unica ed identica obbligazione lavorativa.

Come si vede, il Legislatore delegato ha scartato l’ipotesi di un contratto di “job sharing” ripartito tra più di due lavoratori.

Ogni prestatore, fatta salva una qualsiasi diversa intesa tra le parti contraenti, è responsabile personalmente e direttamente dell’intera obbligazione ed i lavoratori hanno la facoltà discrezionale di sostituirsi in qualsiasi momento tra di loro (a meno che non ci siano accordi contrari o vi sia una diversa previsione collettiva) anche per situazioni nelle quali la prestazione è oggettivamente impossibile (malattia, maternità, ecc.). In questi casi è il lavoratore che resta che si accolla l’obbligazione per intero.

Se entrambi i lavoratori coobbligati sono impediti e non vi sia una diversa intesa tra le parti (cosa che dovrebbe risultare dal contratto o altra pattuizione scritta) trova applicazione l’art. 1256 c.c. il quale afferma che l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, essa diviene impossibile. Ovviamente, se l’impossibilità ha natura temporanea il rapporto si deve intendere provvisoriamente sospeso.

Il comma 4 prevede anche la possibilità di sostituzioni da parte di terzi: esse sono ammissibili a condizione che esista un previo consenso del datore. Ciò, a mio avviso, comporta nei confronti di quest’ultimo la necessità di attivare tutte le procedure connesse all’assunzione , sia pure temporanea, di altri dipendenti.

Il successivo comma 5 affronta lo spinoso tema delle dimissioni o del licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati: salvo diversa intesa tra le parti, il rapporto si risolve “ex lege” anche per l’altro dipendente. Ovviamente, in questo caso, e mi riferisco al provvedimento di licenziamento ed alle garanzie previste, il lavoratore le può, liberamente,  attivare ed una propria vittoria riverbera positivamente gli effetti anche sull’altro dipendente (questo, da un punto di vista teorico, in quanto nella realtà concreta la situazione può presentarsi in modo diverso).

Questa ultima disposizione non trova applicazione se su richiesta del datore l’altro lavoratore si rende disponibile a trasformare la propria obbligazione in una a tempo pieno.

Nel testo non trovano soluzione (e ciò, a mio avviso, non facilita la “gestibilità” dell’istituto, rischiando di riverberare i propri effetti negativi sul contenzioso giudiziale) alcune questioni che potrebbero presentarsi, legate alla gestione del rapporto di lavoro come, ad esempio, il trasferimento, o le dimissioni per giusta causa di uno dei coobbligati, o il patto di prova. Questi problemi, comunque, possono trovare soluzione attraverso la contrattazione collettiva. 

 

ART. 42 Forma e comunicazione

 

Il contratto di “job sharing” è stipulato per iscritto “ad probationem” (come, del resto, quello per lavoro intermittente) e deve contenere i seguenti elementi:

a)                 la misura percentuale e la collocazione temporale della prestazione con riferimento al giorno, alla settimana, al mese o all’anno per ciascuno dei coobbligati, secondo le intese intercorse, ferma restando la possibilità discrezionale di variare, in qualsiasi momento, la sostituzione o la modifica consensuale dell’orario di lavoro;

b)                 il luogo di lavoro ed il trattamento economico e normativo spettante a ciascun lavoratore;

c)                 le eventuali  misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività.

Il successivo comma 2 impone ad ogni lavoratore di informare preventivamente il datore di lavoro, con cadenza almeno settimanale, circa lo svolgimento del proprio orario di lavoro sia per le possibili assenze in ordine a quanto concordato che per eventuali riscontri con l’altro coobbligato.

 

ART. 43 Disciplina applicabile

 

Dopo aver ricordato un sorta di “esclusività” in ordine alla regolamentazione con un rinvio alla contrattazione collettiva la disposizione afferma come, in assenza di quest’ultima, trovi applicazione la normativa generale sul rapporto di lavoro subordinato, nella misura in cui risulti compatibile con la particolare natura del rapporto di coobbligazione.

 

ART. 44 Principio di non discriminazione

 

Dopo aver, pedissequamente, ripetuto nei primi due commi quanto già previsto all’art. 38 per il contratto di lavoro intermittente (sia per la discriminazione che per il trattamento economico e normativo), il comma 3 afferma il diritto a partecipare alle assemblee sindacali  durante l’orario di lavoro per un massimo di 10 ore annue retribuite (così come avviene per tutti gli altri dipendenti): esse, tuttavia, sono ripartite proporzionalmente in relazione alla prestazione lavorativa effettivamente eseguita.

 

ART. 45 Disposizioni previdenziali

 

La disposizione offre chiarimenti operativi e riprende un concetto già presente nella circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 43/1998, affermando che per quel che concerne le assicurazioni obbligatorie c’è una completa assimilazione ai lavoratori a tempo parziale. Si afferma, inoltre, che non è dovuta la contribuzione per l’assicurazione per la corresponsione degli assegni per il nucleo familiare, che sono erogati dall’INPS secondo i criteri previsti per i lavoratori a tempo parziale. Il calcolo delle prestazioni previdenziali e dei contributi va effettuato su base mensile e non in via preventiva, dividendo l’importo delle retribuzioni per il numero dei soggetti che risultano obbligati al momento di inizio dell’evento, fatto salvo l’eventuale conguaglio di fine anno.

 

 

CAPO III

Lavoro a tempo parziale

 

ART. 46 Norme di modifica al decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, e successive modifiche ed integrazioni

 

Le profonde novità introdotte con questo articolo, attraverso le quali l’Esecutivo intende rimuovere le rigidità contenute nel D. L.vo n. 61/2000 (peraltro, poco appianate dalle modifiche introdotte con il successivo D. L.vo n. 100/2001), impongono, a mio avviso, una rilettura completa di tutto l’articolato in quanto le stesse sono state inserite nel vecchio testo, sovente a mo’ di incisi. Conseguentemente, ritengo opportuno procedere ad un breve esame della normativa complessiva.

Con le modifiche introdotte il nuovo art. 1 del D. L.vo n. 61/2000 che offre una serie di definizioni  è un po’ cambiato. Infatti, per “tempo pieno” c’è, ora, lo specifico richiamo all’art. 3, comma 1, del D. L. vo  n. 66/2003: esso è, quindi, di quaranta ore settimanali o l’eventuale minor orario normale fissato dai contratti collettivi applicati. Non hanno subito, invece, cambiamenti le definizioni di “tempo parziale” (orario di lavoro inferiore a quello normale), di “rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale” (riduzione di orario rispetto al normale orario giornaliero di lavoro), di “rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale” (attività lavorativa svolta a tempo pieno in alcuni periodi predeterminati dell’anno, del mese o della settimana), di “rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo misto” (attività lavorativa che si svolge con un orario frutto della combinazione tra orizzontale e verticale), di “lavoro supplementare” (lavoro svolto oltre l’orario di lavoro concordato ed entro il limite del tempo pieno).

Una prima breve riflessione su quanto appena detto si rende necessaria e riguarda il part – time “orizzontale”. Il D. L.vo n. 66/2003 non fa alcun riferimento specifico all’orario giornaliero di lavoro e pone soltanto limiti alla durata massima di quello settimanale (art. 4 – quarantotto ore  - ) ed ai riposi giornalieri (art. 7- undici ore consecutive -). Conseguentemente, nei vari casi di specie, occorrerà far riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva o, in carenza,  all’uso esistente presso l’impresa.     

Cambia, invece, il comma 3, dell’art. 1: il nuovo testo, dopo aver confermato che la contrattazione nazionale o territoriale delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative può determinare le condizioni e le modalità della prestazione lavorativa, nonché prevedere per specifiche figure o livelli professionali modalità particolari di attuazione, attribuisce tale potere anche alle rappresentanze sindacali unitarie ma, a differenza di prima, senza l’assistenza delle strutture di categoria “esterne”.

Il comma 4 dell’art. 1 del D. L.vo n. 61/2000, pur cambiato terminologicamente, è rimasto, nella sostanza, invariato: le assunzioni a termine previste dal D. L.vo n. 368/2001, dall’art. 8 della legge n. 223/1991 (lavoratori in mobilità) e dall’art. 4 del D. L.vo n. 151/2001 (settore pubblico) possono essere effettuate anche per contratti a tempo parziale.

Il riferimento ai contratti a termine part – time offre lo spunto per ricordare come l’istituto possa trovare applicazione anche ad altre tipologie contrattuali formative come l’apprendistato. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali l’ha previsto, in via generale, sin dal 1986 con la circolare n. 102. Ovviamente, tutto va rapportato al caso concreto nel senso che, comunque, deve essere assicurata la formazione professionale, anche esterna, secondo le direttive delle varie Regioni che hanno competenza in materia.

L’art. 2 subisce, invece, alcune sostanziali modifiche che tuttavia non si trovano nell’articolo 46 ma nell’articolo 85, comma 2. Il contratto di lavoro a tempo parziale è stipulato in forma scritta “ad probationem”. Sparisce, inoltre, l’obbligo in capo al datore di lavoro di comunicare l’assunzione a tempo parziale alla Direzione provinciale del Lavoro competente per territorio mediante invio di copia del contratto entro i successivi trenta giorni dalla stipulazione.  Tale disposizione risulta cancellata  ed essa comporta l’abrogazione implicita di un’altra disposizione ad essa correlata e che era contenuta nel comma 4 dell’art. 8 del D. L.vo n. 61/2000: essa riguardava la sanzione amministrativa (15,49 euro) irrogata dall’organo ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per ogni giorno di ritardo oltre il trentesimo nell’invio del contratto a tempo parziale, il cui importo andava al fondo della gestione contro la disoccupazione dell’INPS. La ragione che ha portato all’abrogazione di tale disposizione (al di là di qualunque considerazione sulla eliminazione di una serie di adempimenti di chiaro valore burocratico) risiede nel fatto che con il modello unificato per le comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro previsto dall’art. 6 del D. L.vo n. 297/2002 inviato al centro per l’impiego si intendono assolti tutti gli oneri di comunicazione anche nei confronti sia degli Istituti previdenziali   che delle articolazioni periferiche del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Non hanno subito modifiche, invece, le disposizioni relative alla informativa alla rappresentanze sindacali aziendali (con cadenza annuale) sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, sulle tipologie,  sul ricorso al lavoro supplementare e quelle sulla puntuale indicazione nel contratto sia della durata della prestazione lavorativa che della collocazione temporale della stessa.

L’art. 3 del D. L.vo n. 61/2000 (fondamentale nella struttura, atteso che tratta di lavoro supplementare, di lavoro straordinario e di clausole elastiche ora chiamate, in alcuni casi, flessibili) cambia radicalmente.

Al nuovo comma 1 si afferma che il datore di lavoro, in tutte le ipotesi di rapporto a tempo parziale, anche a termine, può chiedere al lavoratore di svolgere prestazioni supplementari, nel rispetto delle procedure stabilite nei successivi tre commi. Nel primo (comma 2) si rinvia ai contratti collettivi nazionali o territoriali che debbono stabilire il numero massimo delle ore effettuabili anche in relazione alle causali, nonché le conseguenze relative al superamento del monte ore globale consentito dalla stessa pattuizione collettiva, nel secondo (comma 3) si afferma che il consenso al lavoro supplementare non è richiesto nella ipotesi in cui sia previsto dalla contrattazione collettiva e che il rifiuto della prestazione non può, comunque, integrare gli estremi di un provvedimento di licenziamento, nel terzo (comma 4, ove dal vecchio testo è stato espunto l’ultimo periodo relativo al supplementare  nella misura massima del 10% retribuito come ordinario) si fa rinvio ai contratti collettivi che possono prevedere una percentuale di maggiorazione sull’importo della retribuzione globale di fatto e che possono, altresì, stabilire un’incidenza convenzionale della retribuzione per lavoro supplementare sugli istituti indiretti e differiti.

Anche in questo caso le novità introdotte si prestano a qualche riflessione.

La prima è che in presenza di una previsione collettiva lo straordinario può essere imposto al lavoratore il cui rifiuto legittima l’adozione di un provvedimento disciplinare non definitivo. Ovviamente, in questo caso entrano in ballo tutte le situazioni esimenti, il codice disciplinare e quant’altro richiesto dall’art. 7 della legge n. 300/1970 e dalle garanzie procedurali inserite nei contratti. Il fatto che sia possibile adottare provvedimenti disciplinari afflittivi, ma non il licenziamento è, indubbiamente, una cosa positiva: tuttavia la sommatoria di sanzioni nel biennio e la recidiva possono portare alla risoluzione del rapporto e, quindi, il rifiuto può avere una influenza, sia pure indiretta, su un licenziamento.

La seconda riguarda, invece, la mancata previsione contrattuale. In questa ipotesi occorre il consenso del lavoratore e, quindi, se questo non c’è non può essere attivata alcuna procedura di natura disciplinare.

La terza riguarda la non applicabilità del lavoro supplementare nella ipotesi del c.d. “contratto a tempo parziale misto”, cosa che da un punto di vista teorico sarebbe possibile nelle giornate ad orario ridotto. La ragione di tale esclusione, a mio avviso, risiede nella legge n. 30/2003, ove la delega al Governo risulta assegnata unicamente per il lavoro supplementare di tipo orizzontale. Ciò porta alla conseguenza che nel part –time “misto”, ove ne ricorrano le condizioni, si deve far riferimento alle clausole flessibili (le vecchie “clausole elastiche”) che consentono una variazione nella prestazione oraria.

Il nuovo comma 5 fa riferimento alle prestazioni di lavoro straordinario che trovano applicazione sia nel rapporto a tempo parziale verticale che in quello misto (a mio avviso, nelle giornate ad orario pieno). Ad esse si applicano le discipline previste dai contratti collettivi e dall’art. 5 del  D. L.vo n. 66/2003 (duecentocinquanta ore annuali, in difetto di disciplina collettiva e in questo caso con l’accordo del dipendente).

Il successivo comma 6 che si riferiva sia alle prestazioni supplementari eccedenti il 10% che al “consolidamento”, rimandato ai contratti collettivi, delle lavoro supplementare svolto in via non occasionale, è stato soppresso.

Il comma 7 è stato completamente riscritto con una distinzione tra clausole flessibili e clausole elastiche. Le prime si riferiscono alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa (in sostanza, non c’è un aumento della prestazione), le seconde (applicabili ai rapporti a tempo parziale di tipo verticale o misto), possono consentire una variazione in aumento la durata della prestazione. Da ciò sembra dedursi che nel part – time orizzontale il datore di lavoro può incrementare la prestazione ricorrendo soltanto al lavoro supplementare, mentre in quello verticale o misto il risultato può essere raggiunto attraverso lo straordinario ed il ricorso a “clausole elastiche”.

Anche qui un ruolo centrale è assunto dalla contrattazione collettiva che stabilisce:

a)                 condizioni e modalità in relazione alle quali il datore di lavoro può modificare la collocazione temporale della prestazione lavorativa;

b)                 condizioni e modalità in relazione alle quali il datore di lavoro può variare in aumento la durata della prestazione lavorativa;

c)                 i limiti massimi di variabilità in aumento della prestazione lavorativa.

Anche il successivo comma 8 è profondamente cambiato. Ora, il datore di lavoro può variare in aumento la durata della prestazione (clausola elastica, laddove prevista) o modificare la prestazione temporale (clausola flessibile) avvertendo il lavoratore di tale necessità almeno due giorni lavorativi prima che si verifichi la necessità del cambiamento. Ovviamente, sono fatti salvi le diverse intese tra le parti nonchè il diritto a specifiche compensazioni (a mio avviso, anche di natura monetaria) nelle forme previste dalla contrattazione collettiva.

La disponibilità allo svolgimento di un rapporto  tempo parziale con un orario diverso da quello sottoscritto “ab initio” (in aumento o dislocato in altro modo) richiede un consenso del lavoratore formalizzato in un atto scritto, anche contestuale al contratto stesso. Qualora lo richieda il dipendente lo stesso può farsi assistere da un rappresentante sindacale interno da lui indicato. Il rifiuto di sottoscrivere clausole elastiche o flessibili non integra in alcun modo gli estremi per un provvedimento di licenziamento.

Una breve riflessione è necessaria anche su questo ultimo punto.

La dizione normativa riprende un concetto consolidato sia a livello dottrinario che giurisprudenziale secondo il quale in materia di prestazione quantitativa o di dislocazione oraria rispetto a quella concordata all’inizio è inibito all’imprenditore il c.d. “ius variandi”, in quanto esse si inseriscono nell’oggetto della prestazione e come tali non possono essere variate senza il consenso di entrambe le parti. 

La normativa sulle clausole ha un portata generale nel senso che può trovare applicazione anche nelle ipotesi di contratto a termine: così afferma il nuovo comma 10.

I restanti commi da 11 a 15 dell’art. 3 sono stati soppressi.

L’art. 4 del D. L.vo n. 61/2000 che tratta il principio della non discriminazione è rimasto inalterato. Dopo aver richiamato i principi generali sulla non discriminazione nei posti di lavoro inseriti nella specifica legislazione di riferimento, il comma 1 afferma che il lavoratore a tempo parziale non può essere discriminato rispetto al personale che opera a tempo pieno: la valutazione va fatta avendo quale parametro di riferimento il contratto collettivo (anche aziendale) nella parte in cui disciplina il livello professionale ed i criteri di classificazione. La non discriminazione, quindi, va verificata sia sotto l’aspetto economico che sotto quello normativo. Il successivo comma 2 enuclea, puntigliosamente, la vasta gamma di ipotesi riconducibili alla “non discriminazione”: retribuzione oraria rapportata a quella del lavoratore a tempo pieno, durata del periodo di prova e delle ferie annuali, durata dell’astensione obbligatoria e di quella facoltativa in caso di maternità (cui è assimilabile sia l’adozione che l’affidamento), durata del periodo di comporto, infortuni e malattie professionali, norme di tutela della salute e della sicurezza, iniziative formative di qualificazione e riqualificazione professionale, accesso ai servizi sociali aziendali (es. mensa, nido, ecc.), criteri di calcolo delle competenze sugli istituti indiretti e differiti, diritti sindacali, ivi compresi quelli di rappresentanza dei lavoratori nell’unità produttiva. Sia il periodo di comporto che la durata del patto di prova possono essere modulati in maniera diversa dalla contrattazione collettiva, qualora l’assunzione avvenga secondo lo schema del contratto “verticale”. Attraverso la pattuizione collettiva od individuale è possibile prevedere che quella parte della retribuzione legata al c.d. “salario variabile”, venga corrisposta in misura più che proporzionale.

L’art. 5 del D. L.vo n. 61/2000 è stato completamente riscritto.

Il rifiuto di un lavoratore di trasformare il proprio rapporto originario a tempo pieno in rapporto a tempo parziale o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento (e qui la disposizione è rimasta identica). Su accordo delle parti, risultante da atto scritto, convalidato dalla Direzione provinciale del Lavoro territorialmente competente (o in quella più comoda per l’utenza, secondo una interpretazione ministeriale risalente al 2000), è ammessa la trasformazione del rapporto a tempo pieno in part – time. Qui la dizione è profondamente cambiata rispetto al precedente testo. E’ scomparso ogni riferimento all’assistenza del rappresentante sindacale aziendale che, sottoscrivendo “a latere” del lavoratore rendeva superflua la convalida dell’organo periferico del Ministero del Lavoro. E’ rimasta, invece, la convalida di quest’ultimo che, sostanzialmente, continuerà ad effettuarsi come in passato sulla base dei chiarimenti amministrativi a suo tempo forniti (nota n. 5/26805/SUB/PT/ del 5 giugno 2000), con i quali si sostenne che il provvedimento di convalida non ha la finalità di eliminare i vizi dell’atto emanato, bensì di verificare se la volontà manifestata dalle parti nell’atto di trasformazione corrisponda ad una volontà manifestata senza condizionamenti (anche se ciò non sembra detto in maniera chiara)  e se la trasformazione   è avvenuta nel rispetto dei dettati contrattuali.

Il contratto individuale può prevedere, in caso di assunzione di personale a tempo pieno, un diritto di precedenza in favore dei lavoratori assunti a tempo pieno in attività presso unità produttive ubicate nel medesimo ambito comunale, adibite alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti.

Qui, la norma è profondamente cambiata. Non c’è più un diritto di precedenza riconosciuto dalla legge (con conseguenze di natura pecuniaria in caso di mancato rispetto), ma esso in tanto esiste in quanto contenuto nel contratto individuale sottoscritto. E se tale clausola individuale viene inserita la sua efficacia non travalica l’ambito comunale e si riferisce a quei lavoratori eventualmente impegnati nelle unità produttive che ivi ricadono. Come si vede, la novità è grande soprattutto se si pensa che l’ambito di riferimento era di 50 Km dall’unità produttiva interessata (addirittura, nella precedente versione del D. L.vo n. 61/2000 – ossia, prima della modifica introdotta con il D. L.vo n. 100/2001 – era di 100 Km) e che il datore di lavoro era tenuto, comunque, a formulare un graduatoria (con carichi familiari, anzianità di servizio, ecc.) tra coloro che avevano presentato le istanze. Sparisce, di conseguenza (non essendoci più un diritto tutelato) anche il diritto al risarcimento del danno (previsto, in caso di ricorso giudiziale, dal vecchio art. 8, comma 3) in misura corrispondente alla differenza tra l’importo della retribuzione percepita e quella che gli sarebbe stata corrisposta dopo il passaggio a tempo pieno per un periodo di sei mesi. Questa norma, tuttavia, a mio avviso, ha una valenza residuale in quanto resta in vigore soltanto se nel contratto individuale sottoscritto dalle parti era riconosciuto un diritto di precedenza alla trasformazione a tempo pieno.

In caso di assunzione a tempo parziale il datore di lavoro ne deve dare tempestiva informazione ai lavoratori già dipendenti a tempo pieno, anche con comunicazione scritta in luogo accessibile a tutti nei locali dell’impresa, ed a prendere in considerazione le eventuali domande di trasformazione. Anche qui  sparisce una certa procedura di “obbligatorietà legale” in capo al datore di lavoro  (obbligo di motivare adeguatamente il rifiuto).

La contrattazione collettiva può individuare criteri applicativi riferiti a tali disposizioni ed, inoltre, si sottolinea che eventuali incentivi di natura economica correlati alla incentivazione, anche a termine del contratto a tempo parziale, saranno, in futuro, definiti, compatibilmente con la disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato. Questo ultimo chiarimento è da mettersi in stretta correlazione con l’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 5 da cui scaturì il decreto ministeriale incentivante il rapporto a tempo parziale che ha avuto scarso impatto sotto l’aspetto dei benefici occupazionali (D.M. 12 aprile 2000).

L’art. 6 che tratta i criteri di computo dei lavoratori a tempo parziale è restato in vigore parzialmente.

E’ rimasto il comma 1, quanto mai necessario in tutte quelle situazioni nelle quali dal computo dei dipendenti in forza discende l’applicazione di particolari istituti (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla legge n. 68/1999, alla legge n. 108/1990 ove, peraltro, non sono ricompresi nel calcolo i lavoratori a tempo parziale e determinato). Ebbene, i lavoratori a tempo parziale sono computati nel complesso del numero totale in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno (quaranta ore settimanali o il minor orario fissato dalla contrattazione collettiva): l’arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno. Sul punto, viene confermato l’orientamento espresso, a suo tempo, dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare n. 46/2001.

E’ stato soppresso, invece, il comma 2 con il quale si faceva eccezione a quanto appena stabilito nel senso che solo ai fini della applicabilità della normativa sulle garanzie di natura sindacale (legge n. 300/1970, Titolo III) i lavoratori si computavano come unità intera a prescindere dalla durata della loro prestazione.

L’art. 7 che riguardava l’applicabilità al settore agricolo è stato soppresso: la ragione risiede nel fatto che la nuova normativa trova applicazione in tutti i settori privati. Con esso, i contratti collettivi nazionali potevano, oltre che allargare all’agricoltura la disciplina del part – time (già introdotta, per questa via, dall’art. 13, comma 7, della legge n. 196/1997), stabilire la possibile previsione del lavoro supplementare e delle clausole elastiche.

Il successivo articolo riguarda l’apparato sanzionatorio connesso alle violazioni della normativa sul tempo parziale: esso fu oggetto, in passato, di alcune critiche da parte di chi sosteneva l’estrema puntigliosità e rigidità dell’apparato, sì da ritenere che lo stesso potesse, in sostanza, essere ritenuto come una “sentenza già scritta” in caso di ricorso giudiziale del lavoratore.

Il comma 1 è rimasto inalterato: quindi la forma scritta è richiesta “ad probationem”: qualora essa risulti mancante è ammessa la prova per testimoni ex art. 2725 c.c. . Questo articolo, rapportandosi al comma 3 dell’art. 2724 c.c., afferma che la prova per testimoni è ammessa unicamente  se “il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova”. La giurisprudenza ha avuto modo di soffermarsi sul concetto di “perdita incolpevole” sostenendo che essa si verifica allorquando la condotta appare immune da imprudenza o negligenza e, d’altra parte, nessuna prova orale o presuntiva può essere presa in considerazione dal giudice se prima la parte che offre non abbia dimostrato di essere rimasta priva del documento senza colpa. Come si vede, i margini per un riconoscimento del contratto a tempo parziale senza la prova scritta sono molto stretti ed il lavoratore può richiedere il riconoscimento del rapporto a tempo pieno a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia stata giudizialmente accertata, fatto salvo il diritto alle retribuzioni (ed alle contribuzioni) dovute per le prestazioni svolte in precedenza.

Il successivo comma 2, parzialmente modificato, individua, in maniera precisa, una serie di omissioni rilevabili nel contratto a tempo parziale che si riferiscono sia alla durata della prestazione che alla sua collocazione temporale. Nel primo caso, su richiesta del lavoratore, può essere dichiarata la sussistenza di un rapporto a tempo pieno la cui decorrenza parte dalla data dell’accertamento giudiziale. Nella seconda ipotesi, invece, come già nel vecchio testo contenuto nel D. L.vo n. 61/2000, si è ritenuto necessario predeterminare alcuni criteri che il giudice dovrebbe porre alla base della eventuale pronuncia di merito: riferimento ai contratti collettivi per quel che riguarda le modalità di svolgimento della prestazione o, in alternativa, seguendo la “via equitativa”, riferirsi alla situazione familiare, alla necessità di integrazione del reddito con altra attività di lavoro autonomo o subordinato, ed alle esigenze del datore di lavoro. La valutazione equitativa riguarda anche il risarcimento del danno che va corrisposto per il periodo antecedente, oltre alla retribuzione “dovuta” per le prestazioni svolte. La norma consente, altresì, di apporre clausole elastiche (aumento delle prestazioni) o flessibili (variazione della dislocazione oraria). Il comma 2 termina con uno specifico riferimento, per la soluzione della controversi, alle procedure conciliative ed arbitrali previste dai contratti collettivi, così come previsto “ab origine “ dagli articoli 412 – ter e 412 – quater c.p.c. e come regolamentato in una serie di contratti ed accordi collettivi territoriali.

Nel “corpus” dell’articolato sono stati inseriti due nuovi commi il 2 –bis ed il 2 – ter. Con il primo si afferma che la svolgimento di prestazioni elastiche o flessibili senza il rispetto della procedura individuata  ai commi 7, 8 e 9 dell’art. 3 comporta, oltre alla retribuzione dovuta, una somma a titolo di risarcimento del danno, con il secondo si afferma che, in assenza di pattuizione collettiva, il datore di lavoro ed il lavoratore possono comunque concordare clausole elastiche, nel rispetto delle procedure fissate.

I successivi commi 3 e 4 dell’art. 8 sono rimasti ma, a mio avviso, necessitano di una  interpretazione. Nel  primo  si parla di risarcimento del danno per violazione del diritto di precedenza alla trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno: ora il diritto non c’è più “ex lege” (vecchio art. 5, comma 2) ma è eventuale qualora sia stato inserito nel contratto individuale e, quindi, la normativa risaricitoria vale soltanto per questa ipotesi.

Il comma 4, invece, è implicitamente abrogato perché stabiliva la sanzione amministrativa per il mancato invio alla Direzione provinciale del Lavoro entro i trenta giorni successivi alla sottoscrizione di copia del contratto a tempo parziale: non essendoci più l’obbligo non c’è più la sanzione.

Il successivo articolo 9 sulla disciplina previdenziale riguardante sia la retribuzione minima oraria da assumere come base di calcolo dei contributi, che gli assegni familiari, che la retribuzione da valere per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali  è rimasto invariato. Su questo punto vale la pena di ricordare che l’INPS, con circolare n. 36 dell’8 febbraio 2002, ha affermato che per i rapporti part – time trova applicazione l’art. 1, comma 1, della legge n. 389/1989, ferma restando la nozione di retribuzione imponibile indicata dal D. L.vo n. 314/1997.

Identico discorso va fatto per  l’art. 10 che riguarda la disciplina del tempo parziale nelle Pubbliche Amministrazioni: la normativa speciale è rimasta inalterata, come inalterate sono rimaste le esimenti.

Tralasciando gli articoli 11 e 12 ove si parla delle abrogazioni a suo tempo avvenute e delle verifiche con le parti sociali che hanno, poi, portato al D. L.vo n. 100/2001, ritengo opportuno soffermare l’attenzione su una nuova disposizione aggiunta, l’art. 13.

Esso afferma che i lavoratori affetti da patologie oncologiche, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa, anche per gli effetti delle terapie salvavita, accertata da una commissione medica istituita presso l’azienda unità sanitaria competente, hanno diritto a trasformare il rapporto da  tempo pino a tempo parziale sia verticale che orizzontale. Su richiesta del dipendente il rapporto a tempo parziale può essere nuovamente trasformato a tempo pieno.

 Vale la pena di sottolineare, inoltre, come non abbia trovato, in questo provvedimento, attuazione la previsione contenuta all’art. 3, lettera d), della legge n. 30/2003, con la quale l’Esecutivo è stato delegato a disciplinare (entro  il 12 marzo 2004) il rapporto di lavoro a tempo parziale degli anziani, anche con facilitazioni di natura previdenziale, atte a favorire la crescita occupazionale dei giovani. Al momento, va ricordato che nel nostro ordinamento (art. 1, commi 185 e ss. della legge n. 662/1996) esiste una disposizione che consente la prosecuzione a tempo parziale (per almeno diciotto ore settimanali) di quei lavoratori che hanno raggiunto il limite per il godimento della pensione di anzianità, con la possibilità di cumulo tra emolumenti per rapporto part – time e trattamento di pensione part – time, a condizione che l’impresa assuma, sia pure a termine, nuovo personale, ad incremento dell’organico al netto delle diminuzioni intervenute nell’anno precedente, “per una durata ed un tempo lavorativo non inferiore a quello ridotto”. Tale disposizione, tuttavia, per una serie di motivi il cui esame esula dalla presente riflessione, ha avuto un impatto pressochè nullo.

Un’ultima novità sul contratto a tempo parziale che, però non si trova nell’art. 46 ma è rinvenibile nell’art. 75, riguarda la possibilità che le parti, di comune accordo, al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro, attivino la procedura di certificazione della quale si parlerà, diffusamente, più avanti.

Un problema ulteriore, non secondario, riguarda il rapporto a tempo parziale nella Pubblica Amministrazione: l’art. 1, comma 2, del D. L.vo n. 276/2003 afferma che tutta la normativa non si applica al settore pubblico e nelle norma transitorie e finali (art. 86) c’è scritto che il Ministro delle Funzione Pubblica e le Associazioni sindacali di categoria debbono incontrarsi per trovare soluzioni di “armonizzazione” della disciplina di settore con quanto previsto nello stesso decreto. Ebbene, la tecnica normativa adoperata (cancellazioni ed inserimenti sul “corpus” del D. L.vo n. 61/2000) sembra contravvenire a tale intendimento, atteso che quest’ultima disposizione legislativa trova applicazione anche nel pubblico impiego, così come espressamente indicato dall’art. 10. A mio avviso, le nuove disposizioni si applicano anche in questo settore in quanto mi pare difficile pensare che il 24 ottobre 2003, data di entrata in vigore del provvedimento, restino in piedi due decreti legislativi n. 61/2000: uno senza modifiche, per il settore pubblico e, l’altro, con le modifiche, per il settore privato.

 

TITOLO VI

Apprendistato e contratto di inserimento

 

CAPO I

Apprendistato

 

ART. 47 Definizione, tipologie e limiti quantitativi

 

Con le formulazioni adottate nell’articolo 47 ed in quelli immediatamente successivi, il Legislatore delegato giunge ad una nuova definizione del contratto di apprendistato destinata a sostituire “in toto” la vecchia disciplina contenuta principalmente nella legge n. 25/1955 e nell’art. 16 della legge n. 196/1997. Il taglio offerto è completamente diverso dal passato e tiene conto anche delle novità introdotte dalla legge n. 53/2003.

Il contratto di apprendistato, fino a pochi anni or sono, stava esaurendo la propria spinta propulsiva in materia occupazionale e sono state le parti sociali a rivitalizzarlo con una serie di accordi collettivi di settore che hanno privilegiato la formazione in azienda. Contemporaneamente, una legislazione lungimirante, come quella contenuta nell’art. 16 della legge n. 196/1997 ha fatto il resto, facendo uscire l’istituto dai ristretti steccati della legge del 1955, come si evidenziò con l’ampliamento dell’età di riferimento e della possibilità di instaurare il rapporto con giovani in possesso di diploma di scuola secondaria e di attestato professionale.

Ovviamente, finchè tutta la riforma relativa all’istituto (che, sostanzialmente, rimarrà l’unico contratto a contenuto formativo) non  andrà a regime, si continuerà con la precedente normativa, anche se qualche piccolo cambiamento ci sarà da subito. Infatti, dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, per effetto dell’abrogazione dell’art. 2, comma 2, della legge n. 25/1955, contenuta nell’art. 85, comma 1, lettera b), non è più necessaria l’autorizzazione della Direzione provinciale del Lavoro per poter instaurare un rapporto di apprendistato. Naturalmente, l’assenza dell’atto amministrativo non significa assolutamente che vengono meno le norme di tutela come, ad esempio, quelle relative agli adolescenti, previste dal D. L.vo n. 345/1999 che il datore di lavoro è, comunque, tenuto ad osservare.

L’art. 85 cancella altre due disposizioni riferite all’apprendistato: la prima (art. 3 della legge n. 25/1955) riguarda quella che imponeva l’assunzione degli apprendisti attraverso la struttura pubblica del collocamento (cosa che con l’apertura ai privati ed agli altri Enti autorizzati è stata superata), la seconda  (art. 21, comma 3, della legge n. 56/1987) concerne la richiesta nominativa degli apprendisti ora superata dall’assunzione diretta.

Fermo restando il diritto – dovere di istruzione e formazione il contratto di apprendistato è definito secondo le seguenti tipologie:

a)                 contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto – dovere di istruzione e formazione;

b)                 contratto di apprendistato professionalizzante per il conseguimento di una qualificazione attraverso la formazione sul lavoro ed un apprendimento tecnico – professionale;

c)                 contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione.

Detto questo, l’articolato tratta i limiti numerici e riprende quanto già presente nelle disposizioni che attualmente regolano la materia: esso, in via generale, non può superare il 100% delle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il datore di lavoro (e non nell’unità produttiva). Chi non ha dipendenti qualificati o specializzati o ne ha meno di tre, può assumere fino a tre apprendisti. Per le aziende artigiane continuano a valere i limiti numerici previsti dall’art. 4 della legge n. 443/1985.

Il riferimento al fatto che fino alla nuova regolamentazione trova applicazione la precedente normativa, si riferisce, non soltanto alla legge n. 25/1955 ed alle modifiche, nel tempo, ad essa correlate (es. regolamenti attuativi, art. 16 della legge n. 196/1997, ecc.), ma anche alla recente nuova disciplina sull’orario di lavoro (compreso lo straordinario) che trova applicazione anche agli apprendisti maggiorenni (art. 2, comma 4, del D. L.vo n. 66/2002). 

 

ART. 48 Apprendistato per  l’espletamento del diritto – dovere di istruzione e formazione

 

Il comma 1, dopo aver affermato che l’apprendistato è possibile in tutti i settori di attività afferma che possono essere assunti per l’espletamento del diritto – dovere di istruzione e formazione i giovani e gli adolescenti che abbiano compiuto quindici anni.

La dizione adoperata si presta ad alcune considerazioni.

Quando si parla di adolescenti ci si riferisce alla definizione data dalla legge n. 977/1967, nella versione corretta dal D. L.vo n. 345/1999: si tratta dei soggetti compresi tra i quindici ed i diciotto anni di età che hanno adempiuto o assolto l’obbligo scolastico (cosa fondamentale per poter iniziare un’attività lavorativa) per il quale va richiamato quanto disciplinato dalla legge n. 53/2003, anche per quel che concerne l’abrogazione della legge n. 9/1999.

Ma il comma 1 parla anche di “giovani”: secondo la definizione adottata dal D. L.vo n. 297/2002 essi sono i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i venticinque anni.

Tale contratto non può avere una durata superiore a tre anni ed è finalizzato al conseguimento di una qualifica professionale. La durata del contratto è, per così dire “mobile” nell’arco temporale considerato, nel senso che va determinata in base alla qualifica da conseguire, al titolo di studio, ai crediti professionali e formativi acquisiti, al  bilancio delle competenze realizzato dai soggetti istituzionali e privati che operano sul mercato del lavoro, con l’accertamento dei crediti formativi definiti “ex lege” n. 53/2003.

Il contratto che va redatto in forma scritta deve contenere una serie di indicazioni: oggetto, luogo della prestazione, piano formativo individuale, qualifica da acquisire sulla base della formazione, divieto di cottimo, possibilità di recesso per il datore di lavoro ex art. 2118 c.c. al termine dell’apprendistato, divieto per il datore di lavoro di recedere dal contratto di apprendistato senza giusta causa o giustificato motivo.

Quanto appena affermato si presta ad alcune considerazioni valide anche per il il c.d. “apprendistato professionalizzante”, atteso che le indicazioni richiamate sono identiche.

Il divieto di licenziamento durante il rapporto di apprendistato senza giusta causa o giustificato motivo consente al lavoratore di impugnare il provvedimento che se ritenuto illegittimo comporta l’applicazione della tutela reale o di quella obbligatoria a seconda che trovi applicazione la legge n. 108/1990 o l’art. 18 della legge n. 300/1970, in conformità alla sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 28 novembre 1973.

La possibilità di recesso alla fine del periodo di apprendistato, previa disdetta ex art. 2118 c.c., ripete, sostanzialmente, quanto affermato, a suo tempo, dall’art. 19 della legge n. 25/1955. Su questo punto sia la giurisprudenza di merito che quella di legittimità sono concordi, nel senso che alla fine del rapporto formativo il datore di lavoro conserva integra la sua facoltà di recesso, in quanto si esaurita la causa del contratto (addestramento). Del resto, con la pronuncia della Consulta appena citata, che aveva dichiarato la illegittimità  costituzionale dell’art. 10 della legge n. 604/1966, il giudizio era rimasto limitato soltanto al licenziamento del giovane nel corso del rapporto di apprendistato.

 Ovviamente, resta salvo il patto di prova che, se inserito, consente legittimamente la risoluzione del rapporto durante tale arco temporale.

La regolamentazione dei profili  formativi è rimessa alle Regioni, alle Province autonome di Trento e Bolzano, sulla base di un accordo con i Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali e dell’Istruzione, dopo che sono state interpellate anche le organizzazioni sindacali  sulla base di alcuni criteri predeterminati:

a)                 definizione della qualifica professionale nel rispetto della legge n. 53/2003;

b)                 previsione di un monte ore di formazione, interna od esterna all’impresa, congruo al conseguimento della qualifica professionale secondo standard minimi formativi definiti ai sensi della legge n. 53/2003. L’alternatività tra formazione interna ed esterna rappresenta la grossa novità rispetto al recente passato ove ci si trovava di fronte ad una complementarietà tra i due momenti. Ovviamente, per un qualunque giudizio definitivo (anche per i riflessi correlati) occorrerà attendere l’emanazione dei provvedimenti che disciplineranno il nuovo apprendistato;

c)                 rinvio alla contrattazione nazionale, territoriale od aziendale per la determinazione, anche all’interno degli Enti bilaterali, delle modalità di erogazione della formazione aziendale nel rispetto degli standard generali fissati dalle Regioni;

d)                 riconoscimento, sulla base dei risultati conseguiti all’interno del complessivo percorso formativo, della qualifica professionale prevista dal contratto;

e)                 registrazione della formazione effettuata nel libretto formativo;

f)                   presenza di un tutore aziendale con formazione e competenze adeguate.

 

ART. 49 Apprendistato professionalizzante

 

Questa forma di apprendistato è possibile in tutti i settori produttivi, riguarda i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni ed è finalizzata al conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e l’acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico – professionali. Il limite minimo di diciotto anni può essere anticipato di dodici mesi per quei soggetti che hanno già conseguito una qualifica professionale ai sensi della legge n. 53/2003. Anche qui saranno i contratti collettivi a stabilire, in ragione del tipo di qualificazione da conseguire, la durata dell’apprendistato che, comunque, non può essere inferiore a ventiquattro mesi e superiore a sei anni.

Il contratto di apprendistato professionalizzante va stipulato per iscritto e i principi che deve contenere sono gli stessi già previsti per quello disciplinato dall’art. 48, con l’aggiunta di uno ulteriore rappresentato dalla possibilità di sommare i periodi di apprendistato nell’ambito del diritto – dovere di istruzione e formazione con quelli raggiunti con l’apprendistato professionalizzante: il tutto, nei limiti di durata massima previsti dai contratti collettivi e di cui si è parlato pocanzi.

Anche per la regolamentazione dei profili formativi l’iter procedimentale è del tutto uguale a quello descritto all’art. 48, così come sono pressochè identici i criteri ed i principi direttivi. L’unico diverso è quello stabilito al punto a) che, in questo caso consiste nella previsione di un monte ore quantificato di formazione, interna od esterna all’azienda, di almeno centoventi ore all’anno, finalizzate all’acquisizione di competenze di base e tecnico professionali.

L’apprendistato “professionalizzante” è destinato, probabilmente, ad ereditare il ruolo dei contratti di formazione e lavoro cancellati, nel settore privato, per effetto dell’art. 86, comma 9. Esso appare destinato a quei giovani, ormai maggiorenni, che intendono inserirsi nel mondo del lavoro e che hanno necessità di una formazione specifica sul “campo”.

 

ART. 50 Apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione

 

La terza forma di possibile apprendistato consente ai soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni di essere assunti in tutti i settori di attività per il conseguimento di un titolo di studio di livello secondario, di titolo di studio universitario, dell’alta formazione o della specializzazione tecnica già prevista dall’art. 69 della legge n. 144/1999. Anche in questo caso il possesso di una qualifica professionale conseguita “ex lege” n. 53/2003, consente di anticipare il percorso formativo di un anno.

Tale tipologia sembra inserirsi nella ipotesi prevista dall’art. 2, lettera g) della c.d. “riforma Moratti”.

L’ultimo comma dell’art. 50 riserva alle Regioni la quantificazione della durata dei percorsi per il conseguimento del diploma o per i percorsi di alta formazione, per i soli profili che attengono alla formazione. Ciò va realizzato, fatte salve le intese già vigenti, in accordo con le associazioni sindacali territoriali, con le Università e le altre istituzioni formative. Come si vede, le norme attuative sono tutte da scrivere, non essendo neanche prevista una durata minima o una durata massima.

 

ART. 51 Crediti formativi

 

La disposizione, dopo aver ricordato che la qualifica professionale conseguita attraverso qualsiasi tipo di contratto di apprendistato costituisce credito formativo per il proseguimento nei percorsi di istruzione e formazione professionale, affida al un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali da emanarsi entro un anno dall’entrata in vigore del provvedimento la definizione delle modalità per i riconoscimento dei crediti formativi. L’atto, “concertato” con il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ed emanato d’intesa con le Regioni e le Province Autonome, deve tener conto sia delle competenze specifiche degli Enti locali appena richiamati che di quanto stabilito nella conferenza Stato – Regioni del 18 febbraio 2000 e nel D. L.vo n. 174/2001.

 

ART. 52 Repertorio delle professioni

 

Il problema della armonizzazione delle qualifiche e, soprattutto, della loro “spendibilità” su tutto il territorio nazionale è stato avvertito dal Legislatore delegato che, conscio di tale necessità, istituisce presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali un repertorio delle professioni predisposto da un organismo tecnico del quale sono destinati a farne parte rappresentanti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative e della conferenza Stato – Regioni.

 

Art. 53 Incentivi economici e normativi e disposizioni previdenziali

 

Il primo comma dell’art. 53 afferma che durante il periodo di apprendistato la categoria di inquadramento del lavoratore non può essere inferiore, per più di due livelli, alla categoria spettante, in applicazione del CCNL, ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è finalizzato il contratto.

Così come è scritta la norma suscita qualche perplessità atteso che la stessa non appare in linea con quanto stabiliscono attualmente i contratti collettivi i quali, ferma restando la qualifica di inquadramento (che è quella che si ottiene alla fine della formazione in apprendistato), fanno, per quel che concerne la retribuzione, un discorso di percentuale correlata alla paga del qualificato, che aumenta progressivamente fino a raggiungere nell’ultimo periodo un livello di poco inferiore al 100%.

Il comma 2 ripete un concetto già presente nell’ art. 21, comma 7, della legge n. 56/1987: fatte salve specifiche previsioni di legge (es. art. 1, comma 1 della legge n. 223/1991 per il computo dimensionale nelle imprese per l’applicazione della procedura per la CIGS) o di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal calcolo dei limiti numerici previsti da leggi (es. legge n. 68/1999 relativa ai limiti dimensionali per le aziende soggette al collocamento dei disabili) e contratti collettivi per l’applicazione di particolari istituti.

Appare degno di approfondimento e di chiarimenti amministrativi anche il comma 3: vi si afferma che in attesa della riforma del sistema degli incentivi economici, restano in vigore gli attuali “bonus” previsti dall’art. 16, comma 2, della legge n. 196/1997. Il riconoscimento, tuttavia,  sarà  soggetto a  controlli secondo modalità definite con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, d’intesa con la conferenza Stato – Regioni. La disposizione continua affermando che qualora la formazione per i vari tipi di apprendistato non sia stata erogata e la responsabilità ricada sul datore di lavoro, lo stesso è tenuto a versare la quota dei contributi agevolati maggiorati del  100%

Tale asserzione si presta a perplessità atteso che non sembra scritta chiaramente. Comunque sia, la dizione “quota dei contributi agevolati maggiorati del 100%” sembra riferirsi a ciò che il datore di lavoro ha risparmiato rispetto ai “contributi pieni”:  essa apparire in linea con un congruo e giusto sistema sanzionatorio.

La seconda riguarda, invece, un punto cardine della vecchia normativa: la costituzione a tempo indeterminato del rapporto “ab initio” in caso di carenza formativa non è più prevista: a tale dimenticanza si potrebbe, tuttavia, ovviare attraverso l’emanazione delle disciplina concertata con le Regioni.

L’ultimo comma ricorda , infine, che resta ferma la disciplina previdenziale ed assistenziale prevista dalla legge n. 25/1955 e successive modificazioni ed integrazioni.

 

 

CAPO II

Contratto di inserimento

 

ART. 54 Definizione e campo di applicazione

 

Con la disciplina prevista al Capo II del Titolo VI, il Legislatore delegato disciplina una nuova tipologia contrattuale. Si tratta del contratto di inserimento diretto a realizzare, attraverso un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di alcune categorie di persone già individuate:

a)                 soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni. Si ricorda che per un indirizzo amministrativo costante del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali quando si parla di limite massimo di età ci si riferisce al giorno di compimento dello stesso;

b)                 disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue anni. L’art. 2 del D. L.vo n. 297/2002 che ha sostituito l’art. 1 del D. L.vo n. 181/2000 definisce come tali coloro che, dopo aver perso un posto di lavoro o cessato un’attività di lavoro autonomo, siano alla ricerca di una nuova occupazione da più di dodici mesi Trattandosi di ultraventinovenni). Poiché il decreto legislativo appena citato distingue costoro dagli “inoccupati di lunga durata” (che sono coloro che, senza aver svolto un’attività lavorativa, siano alla ricerca di un’occupazione da più di dodici mesi)  resta da stabilire, anche con chiarimento amministrativo, se questa norma si applichi, come vorrebbe il buon senso, anche a costoro;

c)                 lavoratori ultracinquantenni privi del posto di lavoro;

d)                 lavoratori che intendano riprendere un’attività e che non abbiano lavorato negli ultimi due anni;

e)                 donne di qualsiasi età residenti in aree geografiche ove il tasso occupazionale sia inferiore almeno del 20% a quello maschile o nelle quali il tesso di disoccupazione femminile superi del 10% quello maschile. La determinazione dovrà avvenire con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, attraverso un provvedimento “concertato” con il Ministro dell’Economia e Finanze emanato, che dovrà essere emanato entro il 23 dicembre 2003;

f)                   persone affette da handicap fisico, mentale o psichico e come tali riconosciute da una commissione medica pubblica, individuabile, a mio avviso,in quella prevista dall’art. 1, comma 4, della legge n. 68/1999.

Il successivo comma 2 individua i soggetti che possono stipulare contratti di inserimento. Essi sono: gli Enti pubblici economici, le imprese, i loro consorzi, i gruppi di imprese, le associazioni professionali, socio – culturali e sportive, le fondazioni, gli Enti di ricerca pubblici e privati, le organizzazioni e le associazioni di categoria. Dalla vasta gamma dei datori di lavoro che possono assumere con contratto di inserimento sono esclusi i professionisti (stando al tenore letterale della norma) e ciò appare poco comprensibile.

Ma quali sono le modalità per poter accedere a contratti di inserimento?

Alcune di esse riecheggiano, come vedremo, quelle relative ai contratti di formazione e lavoro, come quella, ad esempio, che preclude ai soggetti interessati la possibilità di stipulare nuovi contratti  se nei diciotto mesi precedenti non sono stati mantenuti in servizio almeno il 60% di coloro che furono assunti con tale tipologia. Nel computo non vanno compresi i dimissionari, i licenziati per giusta causa, i soggetti che abbiano rifiutato la trasformazione a tempo indeterminato, coloro il cui rapporto si sia risolto durante o al termine del periodo di prova (se apposto), nonché i contratti non trasformati a tempo indeterminato in un numero non superiore a quattro. Vanno, inoltre, considerati mantenuti in servizio i lavoratori per i quali la trasformazione a tempo indeterminato sia avvenuta durante lo svolgimento del contratto di inserimento. Tali disposizioni non trovano applicazione se nell’anno e mezzo precedente sia scaduto un solo contratto di inserimento.

L’articolato termina sottolineando che trovano applicazione le disposizioni sui contratti di reinserimento previsti dall’art. 20 della legge n. 223/1991, se più favorevoli.

Alcune riflessioni si rendono necessarie in ordine alla computabilità.

Nella base di calcolo oltre ai dimessi (per i quali è necessario che agli atti risulti la rinuncia del lavoratore) non rientrano i licenziati per giusta causa (che è quella che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto). A mio avviso, in caso di impugnazione la non computabilità di questi ultimi è sostenibile fino al momento della eventuale sentenza del giudice che ne dichiari la illegittimità.

Stando al tenore letterale della norma rientrano, invece, nel calcolo tutti i lavoratori assunti in precedenza con contratto di inserimento e licenziati per altri motivi (giustificato motivo oggettivo, giustificato motivo soggettivo, procedure collettive di riduzione di personale, ecc.).

Per quel che concerne il rifiuto della conversione è opportuno che anche in questo caso risulti la rinuncia del lavoratore, mentre per quel che riguarda la risoluzione del rapporto durante la prova il Legislatore delegato ha, opportunamente, considerato che il rapporto non è completamente stabilizzato, essendo sottoposto alla condizione libera del recesso a favore di entrambe le parti.

 

  

La non computabilità dei contratti di inserimento non trasformati in numero fino ad un numero pari a quattro, si inserisce in un’ottica che tende a favorire questo tipo di contratto.

C’è, poi, da chiarire il riferimento ai contratti di reinserimento che, previsti dall’art. 20 della legge n. 223/1991 hanno trovato scarsissima applicazione. Nel testo si afferma, infatti, che se più favorevoli, trovano applicazione quelle norme che si riferiscono ai lavoratori assunti a tempo indeterminato (mentre il contratto di inserimento è compreso tra nove e diciotto mesi) che fruiscono da almeno dodici mesi del trattamento speciale di disoccupazione speciale. Il riferimento del comma 3, probabilmente, si riferisce alla contribuzione che è ridotta del 75% per gli assunti con contratto di reinserimento per un periodo di dodici, ventiquattro o trentasei mesi  se il lavoratore è disoccupato, rispettivamente, per un periodo inferiore a due anni, da due a tre anni e da più di tre anni. Il datore di lavoro ha facoltà di optare per l’esonero dell’obbligo delle quote di contribuzione a proprio carico nei limiti del 50% della misura del 75% (ossia del 37,5% uscendo  dall’arido linguaggio delle cifre) per un periodo pari a quello di effettiva disoccupazione (oggi autocertificabile) e non superiore a sei anni. Per completezza di informazione si ricorda, inoltre, che i lavoratori assunti con contratto di reinserimento sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi o contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti.

L’assunzione con contratto di inserimento è, a tutti gli effetti, subordinata: ciò significa che il datore di lavoro è tenuto ad effettuare tutte le rituali comunicazioni sia al centro per l’impiego che agli Istituti previdenziali, nonché ad effettuare le registrazioni sul libro matricola in uso.

 

Art. 55 Progetto individuale di inserimento

 

La condizione essenziale per l’assunzione attraverso il contratto di inserimento è rappresentata da un progetto individuale definito con il consenso del lavoratore finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali al contesto lavorativo. Anche in questo, come in altri casi, il Legislatore delegato affida alle parti sociali, anche a livello aziendale o all’interno degli Enti bilaterali, il compito di determinare le modalità di definizione dei piani di individuali di inserimento anche attraverso il ricorso al contributo dei fondi interprofessionali per la formazione continua. Se la contrattazione nazionale non provvede entro un arco temporale di cinque mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali convoca le parti e promuove il tentativo per addivenire ad un accordo. Qualora trascorrano altri quattro mesi senza alcun risultato, l’autorità amministrativa si sostituisce alle parti sociali e, in via provvisoria, tenuto conto delle indicazioni emerse e di quanto affermato nell’eventuale accordo interconfederale previsto dall’art. 86, comma 13, definisce le modalità dei piani individuali di inserimento.

Dal quadro appena descritto emerge che, anche in questo caso, l’entrata a regime del nuovo istituto non sarà immediata.

La formazione eventualmente effettuata va riportata nel libretto formativo e, in caso di gravi inadempienze del datore nella realizzazione del progetto di inserimento il datore è tenuto a versare la quota dei contributi agevolati maggiorati del 100%.

Anche qui si rendono necessarie alcune riflessioni.

A differenza del nuovo rapporto di apprendistato (art. 53, comma 3) non si parla di inadempienze nella erogazione della formazione (che non è obbligatoria) ma di gravi inadempienze le quali, a mio avviso, sono riscontrabili in tutte quelle ipotesi nelle quali è stato accertato dagli organi di vigilanza un notevole scostamento rispetto al piano individuale sottoscritto.

In ordine alla sanzione economica si richiama quanto già affermato in materia di apprendistato.

 

Art. 56 Forma

 

Il contratto di inserimento deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere il progetto individuale. L’eventuale carenza di forma scritta comporta la nullità del contratto ed il dipendente si intende assunto a tempo indeterminato.

 

ART. 57 Durata

 

Il contratto di inserimento ha, in linea generale, una durata compresa tra nove e diciotto mesi, cosa che, probabilmente, consentirà alle parti sociali, negli accordi collettivi, di “tararne” la durata in ordine alla complessità del progetto individuale. Soltanto se l’assunzione riguarda soggetti portatori di handicaps psico - fisici  o mentali, l’ arco temporale può estendersi fino a tre anni. Dal limite massimo di durata sono esclusi il servizio di leva e quello civile, nonché i periodi di astensione per maternità. Tali previsioni riprendono, ad esempio, quanto già per gli apprendisti aveva affermato il Ministero del Lavoro già dal 1959 con la circolare n. 196 del 14 marzo e l’art. 7 del DPR n. 1026/1976.

Il contratto di inserimento non è rinnovabile ma può essere soltanto prorogato nel limite massimo (diciotto mesi o trentasei mesi per i portatori di handicap). La disposizione parla di proroghe: ciò significa che, in questo caso, esse possono essere più di una (sia pure nel tetto massimo che è limitato) a differenza di ciò che avviene nei contratti a termine ove la proroga è una soltanto. Ovviamente, la proroga andrà motivata sulla base del progetto individuale da completare.

Una riflessione appare necessaria: la disposizione parla di non rinnovabilità del contratto di inserimento tra le parti. Ciò significa che, in presenza dei presupposti individuabili nel progetto, il lavoratore ne possa stipulare un altro alla scadenza con altro datore di lavoro.

 

ART. 58 Disciplina del rapporto di lavoro

 

Spetta ai contratti collettivi, anche territoriali, stabilire le percentuali massime dei lavoratori assunti con contratto di inserimento: nei loro confronti, fatte salve eventuali diverse determinazioni pattizia, trova applicazione la disciplina fissata dal D. L.vo n. 368/2001 per i soggetti assunti con contratto a termine.

Ciò significa, ad esempio, che trova applicazione la normativa sui divieti (art.3) come il caso della sostituzione di lavoratori licenziati al termine di procedure collettive di riduzione di personale o l’ipotesi di azienda in trattamento salariale straordinario o che non ha effettuato la valutazione dei rischi, sul principio di non discriminazione (art. 6) e sul diritto di informazione (art. 9). Non si applica, invece, la normativa sul computo numerico (art. 8) in quanto il comma 2 del successivo art. 59 esclude espressamente gli assunti con contratto di inserimento dal calcolo dei limiti numerici per l’applicazione di particolari normative ed istituti.

 

ART. 59 Incentivi economici e normativi

 

L’articolato ripete quanto già affermato per i contratti di apprendistato: la categoria di inquadramento non può essere inferiore per più di due livelli a quella spettante ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è preordinato il progetto di inserimento dei lavoratori.

Viene, poi, ribadito quanto appena detto sul computo dei limiti numerici.

L’ultimo comma riguarda gli incentivi economici: in attesa della riforma degli incentivi all’occupazione quelli relativi ai contratti di formazione e lavoro trovano applicazione per tutti i soggetti potenzialmente interessati al contratto di inserimento, ad eccezione dei giovani compresi nella fascia tra diciotto e ventinove anni.

Sul punto si rende necessario un chiarimento amministrativo, atteso che per tale ultima categoria risultano difficilmente ipotizzabili altri incentivi, in quanto quelli che, possibilmente, si potrebbero richiamare per i contratti di reinserimento (art. 54, comma 5) sono di difficile applicazione per l’assenza pressochè certa dei requisiti soggettivi richiesti. Ci sarà, poi, da precisare meglio se nel concetto di “incentivi economici” è da comprendere, come per i contratti di formazione e lavoro, la corresponsione della retribuzione pari al livello (od ai livelli) inferiore: se così fosse (ma tale interpretazione non pare auspicabile) per i giovani tra i quindici ed i ventinove anni non vi sarebbe alcun incentivo, cosa che, a mio avviso, andrebbe contro lo spirito della nuova tipologia contrattuale.

 

 

ART. 60 Tirocini estivi di orientamento

 

La norma offre una nuovo strumento occupazionale propedeutico all’attività lavorativa: i tirocini estivi di orientamento promossi durante le vacanze estive a favore di adolescenti ( soggetti di età compresa tra i quindici ed i diciotto anni) e giovani (la cui età è compresa tra i diciotto ed i venticinque anni) iscritti regolarmente all’Università o ad un istituto scolastico di ogni ordine e grado: obiettivo delle nuove tipologie è l’orientamento e l’addestramento pratico.

E’ questa una grande scommessa che vuole tradurre in realtà ciò che sia l’art. 4 della legge n. 53/2003 che l’art. 2 della legge n. 30/2003 hanno affermato: va sviluppato sempre di più il rapporto organico tra scuola ed impresa con integrazione delle conoscenze e delle esperienze acquisite nei due ambiti. Va ricordato che, in linea generale, l’alternanza scuola – lavoro (anche durante l’anno scolastico) è un momento basilare della riforma scolastica che riprende nel nostro ordinamento il c.d. “sistema duale”, abbastanza in uso nel nord Europa. L’alternanza si pone lo scopo di favorire l’accelerazione dei processi di apprendimento,  di aiutare il giovane ad acquisire una conoscenza del mondo del lavoro sempre maggiore, di fornire orientamenti e di favorire una maggiore opportunità di professionalizzazione.

Ma cosa è concretamente il tirocinio estivo e come si realizza?

Esso ha una durata non superiore a tre mesi (che è la durata massima anche nel caso di una pluralità di esperienze) , si svolge nel periodo compreso tra la fine dell’anno accademico e scolastico e l’inizio di quello successivo e, qualora sia prevista una borsa di lavoro, l’importo massimo non può essere superiore a 600 euro mensili.

Da ultimo, la disposizione ricorda come, fatta salva la diversa previsione dei contratti collettivi, non sono previsti limiti percentuali massimi e che, per il resto trovano applicazione sia l’art. 18 della legge n. 196/1997 che il D.M. n. 142/1998.

La norma si presta ad alcune considerazioni.

La prima è che ci si trova di fronte ad una tipologia contrattuale ove non c’è rapporto di lavoro subordinato: ciò lo si ricava disposizioni appena citate.

La seconda riguarda i soggetti promotori dei tirocini (la cui proposta va indirizzata alle imprese) che possono essere promossi anche su proposta degli Enti bilaterali e delle Associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori: essi sono (art. 2 del D.M. n. 192/1998), tra gli altri, le agenzie per l’impiego, i centri per l’impiego, le Università, i Provveditorati agli Studi, le Istituzioni scolastiche statali e parificate ed i centri di formazione professionale.

La terza concerne le garanzie assicurative (art. 3 del D.M. n. 142/1998) che i soggetti promotori sono tenuti ad assicurare per gli infortuni sul lavoro e la responsabilità civile conto terzi. Le coperture assicurative devono riguardare anche le attività svolte dal tirocinante al di fuori dell’azienda e rientranti nel progetto formativo e di orientamento.

La quarta riguarda il compenso erogato: esso è, da un punto di vista normativo “non obbligatorio” in quanto si parla di eventualità ed è soggetto ad un limite massimo mensile di 600 euro a cui, da un punto di vista fiscale, si applica la normativa sulle borse di lavoro.

La quinta  riguarda la presenza di un “tutor” (art. 4 del D.M. n. 142/1998) quale responsabile didattico – organizzativo delle attività. 

La sesta concerne il valore dei corsi: l’art. 6 del D.M. n. 142/1998 afferma che le attività svolte hanno valore di credito formativo e possono essere riportate nel “curriculum” dello studente.

L’ultima considerazione riguarda l’assenza, salvo diversa previsione dei contratti collettivi, di limiti numerici: qui c’è una oggettiva differenza con ciò che afferma l’art. 1, comma 3, del D.M. n. 142/1998. In via generale, infatti, i datori di lavoro possono ospitare tirocinanti secondo questi limiti:

a)                 aziende con non più di cinque dipendenti a tempo indeterminato, un tirocinante;

b)                 aziende con un numero fino a diciannove dipendenti a tempo indeterminato, due tirocinanti contemporaneamente;

c)                 aziende con un numero superiore di dipendenti a tempo indeterminato, tirocinanti in misura non superiore al 10% dei lavoratori in forza, contemporaneamente.

 

 

TITOLO VII

Tipologie contrattuali a progetto e occasionali

 

CAPO I

Lavoro a progetto e lavoro occasionale

 

ART. 61 Definizione e campo di applicazione

 

Le disposizioni sul “contratti a progetto” rappresentano una delle novità più significative del provvedimento delegato, anche se, dopo il passaggio parlamentare, il testo che è venuto fuori nella versione definitiva è diverso dalla precedente e consente “un atterraggio morbido” nel nuovo sistema, atteso che (art. 86, comma 1) “le collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina vigente, che non possono essere ricondotte ad un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del provvedimento. Termini diversi, anche superiori all’anno, di efficacia delle collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina vigente potranno essere stabiliti nell’ambito di accordi sindacali di transizione al nuovo regime di cui al presente decreto, stipulati in sede aziendale dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”. Ovviamente, ciò riguarda le collaborazioni coordinate e continuative in essere: infatti, dall’entrata in vigore del decreto legislativo non si potrà più far riferimento ad esse (almeno nel settore privato e fatte salve le eccezioni di cui si parlerà successivamente) in caso di costituzione di nuovi rapporti.

L’obiettivo che si è posto il Parlamento con la legge n. 30/2003 è stato quello di regolamentare “in qualche modo” le prestazioni coordinate e continuative, le quali hanno avuto nel nostro Paese uno sviluppo abnorme (le cause sono molteplici e non è questa la sede per esaminarle). Dalla attuale regolamentazione resta fuori tutto il Pubblico Impiego che ha fatto e fa largo uso di tali tipologie in quanto ciò è espressamente previsto (art. 1, comma 2) che, peraltro, riprende sul punto quanto detto chiaramente all’art. 6 della legge n. 30/2003. Va, peraltro, ricordato che il comma 8 dell’art. 86 rimanda ad un incontro tra il Ministro per la Funzione Pubblica e le Organizzazioni sindacali la possibilità di arrivare a provvedimenti legislativi condivisi, finalizzati alla armonizzazione della materia.

Per quel che concerne le collaborazioni coordinate e continuative del settore del pubblico impiego (che, come si è visto, continuano) va ricordato un recente indirizzo della quinta sezione del Consiglio di Stato espresso nella sentenza n. 5144 del 15 settembre 2003. Dopo aver sottolineato che sono compatibili con gli incarichi di collaborazione alcuni elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato come la firma del foglio di presenza e l’osservanza di un certo orario di lavoro, il supremo organo della Giustizia Amministrativa osserva che tre sono i requisiti essenziali:

a)                                                                  l’autonomia delle prestazioni richieste e la carenza di un effettivo vincolo gerarchico;

b)                                                                  la mancanza di uno stabile inserimento nell’ente e l’assenza del posto nella dotazione organica;

c)                                                                  la natura dell’incarico professionale che deve risultare congruente con l’attività di tipo intellettuale richiesta.

Va, peraltro, ricordato come l’art. 107 del D. L.vo n. 267/2000   conferisca ai Comuni ed alle Province la possibilità di istituire rapporti di collaborazione soltanto per prestazioni di “alto contenuto professionale”.

Ma andiamo con ordine ad esaminare il contenuto dell’art. 61.

Il comma 1 afferma che fatta salva la specifica disciplina per gli agenti e rappresentati di commercio che resta pienamente in vigore, tutti  gli altri rapporti di collaborazione prevalentemente personale e non subordinata che ricadono nell’ampia definizione dell’art. 409, n. 3, c.p.c., devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.

I successivi commi 2 e 3 stabiliscono le esclusioni: sono, innanzitutto, fuori dalla applicazione della normativa le prestazioni occasionali (e qui il testo riprende, pedissequamente, quanto già disciplinato nella legge n. 30/2003) che sono quelle di durata non superiore a trenta giorni nell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso percepito nel medesimo arco temporale sia superiore a 5.000 euro, cosa che comporta la trasformazione in contratto a progetto. 

Restano, altresì, fuori dal campo di applicazione le professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione ad un albo professionale, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa resi ed utilizzati in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali ed agli Enti di promozione sportiva riconosciute dal CONI, i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società, i partecipanti a collegi e commissioni e coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia.

La disposizione non ne parla ma, a mio avviso, devono considerarsi escluse, per la peculiarità delle prestazioni, anche le collaborazioni all’impresa familiare disciplinate dall’art. 230 –bis c.c., almeno nei limiti in cui non si configuri un rapporto di lavoro subordinato, associato od in partecipazione.

L’ultimo comma afferma, infine, che sono fatte salve le condizioni più favorevoli stabilite sia a livello individuale che con accordo collettivo.

La scelta di un periodo transitorio relativo alle collaborazioni coordinate e continuative risponde, oggettivamente, alla necessità di una riflessione circa l’eventuale formulazione successiva del rapporto che potrebbe anche non essere, necessariamente, “a progetto”, ma  di natura subordinata.

C’è, poi, da sottolineare la possibilità, concessa alla contrattazione collettiva, di derogare al dettato normativo: si è detto che entro un anno le collaborazioni coordinate e continuative  passeranno a “contratto a progetto” ma si è concesso agli accordi sindacali, anche aziendali, di stabilire un termine ulteriore, superiore all’anno stesso, senza specificare alcun limite massimo. Ciò potrebbe portare a qualche “discrasia operativa”.

Un’altra considerazione concerne le prestazioni occasionali.  Qui si parla di due limiti, presso lo stesso committente: trenta giorni e 5.000 euro. Ciò significa che il lavoratore può rimanere “occasionale” svolgendo attività per più committenti. La disposizione rischia di complicare l’attività degli organi di vigilanza del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, attesa la estrema difficoltà di distinguere una vere e propria collaborazione occasionale (sia pure ripetitiva) da un’altra che è tale solo di facciata, anche per il fatto che, ad oggi, non è prevista alcuna forma comunicativa ai servizi per l’impiego, né alcuna forma di contribuzione. Probabilmente, nel medio periodo se vedrà la luce il disegno di legge sulla riforma previdenziale le cose potranno andare diversamente. Infatti, l’art. 3 prevede l’iscrizione dei titolari di redditi occasionali superiori a 4.500 euro alla gestione separata dell’INPS, qualora non siano titolari di altri obblighi assicurativi. 

Anche altre attività di natura occasionale (ma che il Legislatore ha chiamato accessorie) sono disciplinate dal provvedimento: ma di esse se ne parla agli articoli 70 e seguenti.

Da un punto di vista fiscale i collaboratori del settore sportivo dilettantistico hanno un loro particolare regime come fonte di redditi “diversi” e la norma che è stata introdotta si pone in linea con il “favor” concesso alle società dilettantistiche dall’art. 90 della legge n. 289/2002. La stessa Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 21/E del 2003, ha chiarito che tali prestazioni sono connotate da continuità nel tempo, da “non professionalità” e da assenza di vincoli di subordinazione.

L’esclusione invece dei componenti del collegio sindacale e degli organi amministrativi delle società, va posta in correlazione con l’art. 8, comma 1, dell’art. 3 della legge n. 80/2003 che delega il Governo ad emanare, entro ventiquattro mesi, (cosa ancora non avvenuta) una “disciplina dei redditi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa espressamente definiti, con l’inclusione degli stessi nell’ambito del reddito di lavoro autonomo”. In attesa, continua ad applicarsi l’art. 47 del Tuir che, assimila questi redditi a quelli dei lavoratori dipendenti.

Le professioni intellettuali sono escluse dal campo di applicazione del “contratto a progetto”: c’è, però, un limite che gli Albi devono essere quelli esistenti alla data di entrata in vigore del provvedimento delegato. Ciò potrebbe portare, in futuro, alla non esclusione di professionisti iscritti in Albi non ancora esistenti.

Una disposizione che, a mio avviso, è da mettere in stretta correlazione con il “contratto a progetto” è l’art. 86, comma 2. In essa si cerca di evitare i fenomeni elusivi alle discipline di legge e contratto collettivo realizzabili in caso di associazione in  partecipazione senza una effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni economiche nei confronti del lavoratore. Vi si afferma che quest’ultimo ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi previsti dalla legge e dal CCNL per il lavoro subordinato svolto da lavoratori  con analoghe mansioni, a meno che il datore di lavoro o il committente non provi, con idonee attestazioni o documentazioni, che la prestazione rientra tra quelle disciplinate dal decreto legislativo, o in un contratto subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto autonomo, o in altro contratto previsto dall’ordinamento.  

Dovranno essere chiariti, con approfondimenti amministrativi, sia il concetto di “adeguata erogazione economica”, rapportato all’alea che è un elemento essenziale dell’associazione in partecipazione che quello della partecipazione effettiva.

 

ART. 62  Forma

 

Il contratto a progetto è stipulato in forma scritta “ad probationem” e deve contenere:

a)                 indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro. Quindi, la prestazione, che è di lavoro autonomo, è strettamente correlata ad un termine (compimento del progetto) che deve risultare dall’atto o, comunque, essere determinabile;

b)                 indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuato nel suo contenuto caratterizzante, dedotto in contratto. Così come è scritta, la disposizione sembra prefigurare uno “spettro” ampio, comunque correlabile alla organizzazione dell’impresa ed in funzione del mercato;

c)                 il corrispettivo ed i criteri per la sua determinazione, i tempi, le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese;

d)                 le forme di coordinamento al committente, tali da non pregiudicare l’autonomia nella esecuzione dell’obbligazione lavorativa;

e)                 le eventuali misure per la tutela e la sicurezza del collaboratore a progetto, fermo restando quanto richiamato sull’argomento dall’art. 66, comma 4.

Da un punto di vista teorico appare possibile la stipula di più contratti a progetto contemporaneamente  pur se, oggettivamente, si possono porre problemi di compatibilità oraria.

 

ART. 63 Corrispettivo

 

La disposizione chiarisce che il compenso deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e deve avere quale parametro di riferimento i compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo (e non subordinato) nel luogo ove il contratto a progetto è svolto.

Da un punto di vista fiscale i contratti a progetto dovranno essere tassati secondo la previsione dell’art. 47, lettera c- bis) del Tuir (in attesa delle modifiche postulate dalla legge n. 80/2003), mentre da un punto di vista contributivo occorre tenere presenti le novità riportate dal D.L. n. 269/2003. Dal 1° gennaio 2004 la contribuzione alla gestione separata dell’INPS (art. 2, comma 26, della legge n. 335/1995) passa al 17,39% ed al 18,39% a seconda dello scaglione di riferimento per raggiungere progressivamente il 19% attraverso aumenti dello 0,20% all’anno.

 

ART. 64 Obbligo di riservatezza

 

Il lavoratore che opera a progetto può svolgere la propria attività per più committenti: a questo principio di carattere generale si può derogare in favore dell’esclusività soltanto sulla base di un accordo tra le parti. Ovviamente, ciò potrebbe portare ad una “monetizzazione” ulteriore correlata all’unicità della prestazione.

Il comma 2 riafferma principi generali già presenti nel nostro ordinamento: divieto di concorrenza per il collaboratore con i propri committenti, divieto di diffondere notizie e apprezzamenti riguardanti sia i programmi che l’organizzazione, divieto di compiere attività che siano lesive o che rechino pregiudizio agli stessi. Si tratta di principi che, per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, trovano origine nell’art. 2105 c.c. rispetto al quale la Giurisprudenza di legittimità (Cass., 3 novembre 1995, n. 11437) ha affermato che ci si deve astenere non soltanto dai comportamenti espressamente vietati, ma anche da qualsiasi altra condotta che, “ a priori”, possa essere valutata come in contrasto con le finalità e gli interessi dell’impresa.

Il divieto di concorrenza riguarda il periodo nel quale il “prestatore a progetto” opera per il committente: tuttavia, potrebbe verificarsi il caso che per la particolarità della prestazione vi possa essere la necessità di una “non concorrenza” anche in un arco temporale successivo alla fine della prestazione. In proposito, l’art. 2125 c.c. consente la limitazione anche per un periodo successivo ma ciò, a pena di nullità del patto, deve risultare da atto scritto. Quest’ultimo deve prevedere anche un corrispettivo a favore del prestatore e deve porre limiti in termini di oggetto, tempo e luogo. Il medesimo articolo, riferendosi ai lavoratori subordinati, fissa per i dirigenti in cinque anni la durata massima e in tre anni per tutti gli altri.

 

ART. 65 Invenzioni del collaboratore a progetto

 

Viene riconosciuto il diritto al lavoratore ad esser riconosciuto autore dell’invenzione fatta durante lo svolgimento del rapporto.  Trovano piena applicazione il Titolo IX del Codice Civile e la legge n. 633/1941 concernente la protezione del diritto di autore e degli altri diritti connessi al suo esercizio.

 

ART. 66 Altri diritti del collaboratore a progetto

 

Durante la gravidanza, l’infortunio o la malattia, non decorre alcun compenso ed il rapporto contrattuale rimane sospeso: la malattia e l’infortunio, salva diversa previsione del contratto individuale, non comportano alcuna proroga del contratto che si estingue alla scadenza. Il committente può recedere se la sospensione si protrae per un periodo superiore ad un sesto della durata complessiva, quando essa sia determinata, o superiore a trenta giorni per i contratti a durata determinabile.

Qualora ci si trovi di fronte ad una gravidanza, il contratto a progetto, ferme restando disposizioni di carattere più favorevole, è prorogato di centottanta giorni.

L’ultimo comma dell’art. 66 richiama alcune disposizioni che trovano applicazione ai contratti a progetto. Tra esse si rinvengono:

a)                 la legge n. 533/1973: ciò significa che ai contratti a progetto trova piena applicazione l’art. 409, n. 3, c.p.c. con il tentativo obbligatorio di conciliazione (in sede amministrativa presso la commissione provinciale di conciliazione istituita in ogni Direzione provinciale del Lavoro o in sede sindacale) propedeutico al ricorso giudiziale, comunque esperibile dopo che siano trascorso sessanta giorni dall’invio dell’istanza;

b)                 l’art. 64 del D. L.vo n. 151/2001 che disciplina la tutela della maternità per le lavoratrici con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. In esso si afferma che alle lavoratrici non iscritte in altre forme obbligatorie si applicano le disposizioni previste dal comma 16 dell’art. 59 della legge n. 449/1997 e che, ai sensi del comma 12 dell’art. 80 della legge n. 388/2000, la tutela della maternità avviene nelle forme e con le modalità previste per il lavoro dipendente;

c)                 il D. L.vo n. 626/1994 e successive modificazioni ed integrazioni, nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: esse si applicano ogni qual volta la prestazione si svolga nei luoghi del committente.

 

ART. 67 Estinzione del contratto e preavviso

 

La disposizione ricorda come i contratti a progetto si esauriscano con la realizzazione di quanto oggetto degli stessi (programmi o fasi di essi). La risoluzione anticipata del contratto può avvenire per giusta causa (quella, cioè, che, mutuata dal lavoro subordinato non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto) oppure secondo le diverse causali o modalità incluse nel contratto individuale il quale disciplina anche l’eventuale preavviso.

Il riferimento alla motivazione della giusta causa (o ad altre motivazioni eventualmente disciplinate) fa sì che il prestatore a progetto che si intenda leso dal comportamento del proprio committente possa richiedere, attraverso il ricorso giudiziale, mediato dal tentativo obbligatorio di conciliazione, la corresponsione di una indennità risarcitoria qualora venga accertato un comportamento illegittimo della controparte.

 

ART. 68 Rinunzie e transazioni

 

La disposizione ricorda come i diritti derivanti dalle disposizioni contenute negli articoli precedenti possono essere oggetto di rinunzie o transazioni in sede di certificazione. Sul punto ci si soffermerà allorchè verrà trattato lo specifico argomento.

 

ART. 69 Divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione dei contratti

 

La norma afferma che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che non recano l’indicazione di un progetto, programma di lavoro o fase di esso, sono considerati “ab initio “ come di carattere subordinato a tempo indeterminato e la trasformazione avviene, in caso di accertamento giudiziale, nella tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti. L’accertamento del giudice si deve limitare soltanto alla verifica dell’esistenza del progetto o del programma di lavoro, essendogli preclusa, a norma del comma 3, qualunque valutazione relativa al merito ed alle scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente.

 

 

CAPO II

Prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti

 

ART. 70 Definizione e campo di applicazione

 

Con le disposizioni che seguono il Legislatore delegato ha inteso disciplinare, in via sperimentale, una nuova tipologia contrattuale, di natura non subordinata, che si rivolge ai soggetti a rischio di esclusione sociale o che non sono ancora entrati nel mondo del lavoro o stanno per uscirne. Si tratta di lavori meramente occasionali  ed accessori per i quali è stato ipotizzato un periodo di diciotto mesi, trascorsi i quali (art. 86, comma 12),  il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali procede ad informare il Parlamento, dopo aver acquisito informazioni ed aver sentito le Organizzazioni sindacali, circa l’opportunità o meno di prolungare la sperimentazione della norma o di passarla, definitivamente, a regime.

Ma quali sono le prestazioni meramente accessorie cui ci si riferisce?

Esse sono elencate minuziosamente e si riferiscono:

a)                 ai piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa l’assistenza domiciliare ai bambini ed alle persone anziane, ammalate o con handicap;

b)                 all’insegnamento privato complementare;

c)                 ai piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti;

d)                 alla realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli;

e)                 alla collaborazione con Enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà.

Queste attività, anche se svolte a favore di più beneficiari, non possono superare una durata complessiva  superiore a trenta giorni nell’anno solare e, in ogni caso non debbono generare compensi complessivi superiori a 3.000 euro nell’anno solare.

La disposizione merita qualche approfondimento.

Il primo riguarda la differenza tra la prestazione occasionale per la quale l’art. 61, comma 2, del decreto legislativo parla di durata complessiva non superiore a trenta giorni nell’anno solare con lo stesso committente e con un compenso non superiore a 5.000 euro, e quella meramente occasionale ed accessoria ove i beneficiari possono essere anche più di uno, ma la durata complessiva è sempre di trenta giorni ed il limite di guadagno complessivo non può superare i 3.000 euro.

Il secondo concerne il calcolo a giornate (cosa che riguarda anche le prestazioni occasionali): non c’è alcun riferimento all’orario per cui prestazioni di un’ora o di più ore sotto, l’aspetto del computo, sono la stessa cosa.

Il terzo riguarda la tipologia dei soggetti che possono usufruire delle prestazioni accessorie: l’individuazione dei contenuti delle stesse porta ad escludere, in linea di massima e fatta salva qualche forma residuale, la possibilità che le imprese possano esserne destinatarie (assistenza familiare, insegnamento privato supplementare, piccoli lavori di giardinaggio, pulizia di monumenti, realizzazione di manifestazioni caritatevoli, culturali e sportive, collaborazioni con associazioni di volontariato ed enti pubblici in lavori di emergenza). Come si vede, la differenza con collaborazione occasionale, prevista all’art. 61, comma 2, è di solare evidenza.

 

ART. 71 Prestatori di lavoro accessorio

 

Le attività sopra elencate possono essere svolte soltanto da una ristretta fascia di soggetti. Essi sono:

a)                 i disoccupati da oltre un anno: si tratta di coloro che (art. 1, lettera d del  D. L.vo n. 297/2002) “dopo aver perso un posto di lavoro o cessato un’attività di lavoro autonomo siano alla ricerca di una nuova occupazione da più di dodici mesi. Il tenore letterale della norma sembrerebbe escludere, a prima vista, gli inoccupati di lunga durata (art. 1, lettera e del D. L.vo n. 297/2002) che sono coloro che, senza aver precedentemente svolto un’attività lavorativa, siano alla ricerca di un’occupazione da più di dodici mesi. Essi tuttavia, pur non essendo nominati, sono indirettamente compresi tra i soggetti destinatari della norma, in quanto nominati al comma 2 dell’art. 72, allorchè si afferma che il compenso ricevuto non incide in alcun modo “sullo stato di disoccupato o inoccupato del prestatore di lavoro accessorio”;

b)                 casalinghe, gli studenti ed i pensionati. L’espressione adoperata è estremamente ampia e tale da comprendere gli studenti di qualsiasi scuola (anche professionale od Universitaria), ordine e grado in corso o fuori corso, nonché i pensionati a qualsiasi titolo (vecchiaia, anzianità, invalidità, ecc.);

c)                 disabili e soggetti in comunità di recupero. La dizione comprende sia i disabili, a vario titolo riconducibili alle liste della legge n. 68/1999 ed alle altre disposizioni di carattere speciale che regolano la materia, che i soggetti in recupero (tossici, alcoolisti, ecc.);

d)                 lavoratori extra comunitari, regolarmente soggiornanti in Italia, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro. Si tratta della previsione contenuta al comma 11 dell’art. 18 della legge n. 189/2002 che ha sostituito il contenuto dell’art. 22 del T. U. n. 286/1998. La perdita del posto di lavoro (per licenziamento, dimissioni, ecc.) non costituisce motivo di revoca del soggiorno e, per un periodo non inferiore a sei mesi (o, se superiore per tutta la durata del permesso di soggiorno), il lavoratore straniero può dare la propria disponibilità ad una nuova occupazione (la norma parlava di iscrizione nelle liste di collocamento ma queste, come è noto, sono state abolite per effetto del D. L.vo n. 297/2002).

I soggetti interessati allo svolgimento di attività accessorie debbono comunicare la loro disponibilità ai centri per l’impiego competenti per territorio o ai soggetti, anche privati, accreditati in ambito regionale con la procedura individuata dall’art. 7. Dopo la comunicazione essi ricevono, a proprie spese, una tessera magnetica attestante la loro condizione.

 

ART. 72 Disciplina del lavoro accessorio

 

La grande novità è rappresentata dal fatto che i lavoratori vengono retribuiti con dei buoni di valore nominale pari a 7,5 euro, acquistati presso rivenditori autorizzati che li venderanno a “blocchetti”. Sarà il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (comma 5) ad individuare con proprio decreto da emanare entro il 23 dicembre 2003 (che sono i sessanta giorni successivi all’entrata in vigore del D. L.vo n. 276/2003), gli Enti e le società concessionarie alla riscossione dei buoni, nonché i soggetti autorizzati alla vendita e le modalità per il versamento dei contributi e delle relative coperture assicurative e previdenziali.

Un volta percepito il buono dal datore di lavoro il prestatore lo deve “cambiare” presso uno dei concessionari e riceve 5,8 euro per ogni “voucher”. Il compenso è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato od inoccupato e, quindi, par di capire, non rientra nell’eventuale reddito preso in considerazione da provvedimenti regionali per la permanenza nei disponibili.

Ma cosa succede degli importi residui?

Il comma 3 afferma che l’Ente o la società concessionaria provvedono al pagamento delle spettanze alla persona che si   presenta, registrando sia i dati anagrafici che il codice fiscale e versando i contributi previdenziali all’INPS, alla gestione separata prevista dall’art. 2, comma 26, della legge n. 335/1995 (la stessa che, fino ad oggi, è stata prevista per i collaboratori coordinati e continuativi), in misura, rispettivamente di 1 euro  e di 0,50 euro all’INPS ed all’INAIL. Lo stesso Ente trattiene per sé l’importo di 0,20 euro a titolo di rimborso spese. 

Il lavoro accessorio ha la caratteristica dell’occasionalità e ciò, come si è visto, scaturisce sia dalla brevità della prestazione, che dal compenso complessivo che, infine, dalla originalità della forma di erogazione dello stesso. Sono proprio queste caratteristiche che lo escludono dall’applicazione delle disposizioni tipiche del rapporto subordinato o del lavoro a progetto. Indubbiamente, in caso di verifica, anche il controllo degli organi di vigilanza presenta delle difficoltà in quanto, ferme restando le valutazioni circa l’esecuzione dei lavori, la qualificazione dei prestatori di lavoro accessorio e l’entità complessiva della prestazione, appare di difficile attuazione un eventuale riscontro contributivo rispetto ai buoni erogati.

Il riferimento al lavoro accessorio è a giornate (trenta nell’anno solare) ma non alle ore: ciò significa, ad esempio, che una “baby – sitter” può essere impiegata per una giornata (di tre ore) mentre un giardiniere addetto alla potatura o alla semina di un giardino può espletare la propria attività per una giornata di otto o più ore.

Ma cosa succede se la prestazione accessoria supera il tetto massimo previsto (trenta giornate nell’anno solare e 3.000 euro di compenso)? A mio avviso, se ciò fosse riscontrato dalla tessera magnetica di cui dovranno essere dotati i lavoratori, si porrebbero, innanzitutto, problemi di natura fiscale (si dovrebbe applicare la disciplina generale prevista per i rapporti occasionali dall’art. 81, lettera l) del Tuir, in luogo dell’attuale esenzione) e previdenziale in quanto cambierebbe il regime applicabile.

 

ART. 73 Coordinamento informativo a fini previdenziali

 

La disposizione afferma che l’INPS e l’INAIL sono tenute a stipulare una convenzione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per verificare, mediante apposita banca dati, l’andamento delle prestazioni e delle entrate contributive anche al fine di procedere ad adeguamenti normativi e ad aggiornamenti degli importi.

Dopo diciotto mesi dall’entrata in vigore del provvedimento il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali è tenuto  riferire in Parlamento circa l’andamento di tale nuova tipologia contrattuale. Questo obbligo è da mettere in correlazione con quanto affermato successivamente dall’art. 86, comma 12.

 

ART. 74 Prestazioni che esulano dal mercato del lavoro

 

La norma che si commenta riguarda le attività agricole (intese, a mio avviso, in senso lato, tali da comprendere tutte quelle individuate dal D. L.vo n. 228/2001) ove si afferma che non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o subordinato le prestazioni svolte da parenti e affini sino al terzo grado (non è detto di chi, ma si presume del titolare dell’impresa o del coltivatore diretto, qualora si tratti di una ditta individuale) in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori.

Qualcosa di analogo c’era già stato sia nella legge n. 388/2000 e nella legge n. 289/2002 (con il riferimento alle novanta giornate nell’anno solare). Ora, non c’è più un limite temporale preciso ma si parla di “occasionalità” anche ricorrente (quindi più volte) e di breve periodo. E’ chiaro che ci si riferisce alle fasi dell’agricoltura legate, principalmente, alla raccolta dei prodotti della terra ed alla lavorazione dei campi, connotate dai concetti di aiuto, anche ricambiato, e di obbligazione morale.

 

TITOLO VIII

Procedure di certificazione

 

CAPO I

Certificazione dei contratti di lavoro

 

ART. 75 Finalità  

 

Con questa disposizione si entra in uno degli argomenti del decreto legislativo che più hanno sollevato discussioni: la certificazione di alcuni contratti finalizzata alla riduzione del contenzioso giudiziale. Vi si afferma che le parti, su base volontaria (cosa che presuppone il consenso di entrambe le parti), possono ottenere la certificazione della qualificazione del contratto di lavoro intermittente, di quello ripartito, di quello a tempo parziale (anche a tempo indeterminato), di quello a progetto, di quello di associazione in partecipazione, disciplinato sotto vari aspetti dagli articoli 2549 e ss. c.c., dei rapporti disciplinati con regolamento interno nelle società cooperative (art. 83) e del c.d. “appalto genuino” (art. 84). . Anche questa procedura ha carattere sperimentale in quanto il più volte richiamato art. 86, comma 12, del decreto legislativo afferma che, trascorsi diciotto mesi, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, sentite le Associazioni sindacali, prospetta al Parlamento la possibilità di prorogare nel tempo la vigenza di dette norme.

Per quel che riguarda le Direzioni provinciali del Lavoro, che risultano essere sede di certificazione, si tratta di un nuovo compito destinato, se realizzato sin dall’inizio con particolare professionalità, a delineare prospettive qualitative interessanti nell’attività.    

 

ART. 76 Organi di certificazione

 

La procedura di certificazione è estremamente puntuale e parte dalla individuazione degli organi a ciò abilitati. Si parla di commissioni di certificazioni (senza, peraltro, stabilire “ a priori” chi ne farà parte neanche a livello di individuazione degli organismi individuati). Per la verità, in un caso particolare esse sono disciplinate: mi riferisco all’art. 83, comma 2, relativo alla certificazione susseguente al deposito del regolamento interno delle cooperative ove il Legislatore delegato ha stabilito la “pariteticità” dei componenti scelti tra gli appartenenti al movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali dei lavoratori , dopo aver affermato che il Presidente che deve essere designato dalla Provincia.

Al momento, il provvedimento delegato non prevede per gli eventuali componenti degli organi collegiali esterni alla Pubblica Amministrazione alcuna forma di compenso per l’attività svolta, neanche a titolo di rimborso spese. Ciò, se confermato nei provvedimenti attuativi, potrebbe portare a seri problemi di funzionalità dell’organo, così come avviene, purtroppo, nelle commissioni (e sotto commissioni) provinciali di conciliazione delle controversie individuali di lavoro che si riuniscono giornalmente nelle grandi città per trattare ricorsi i quali raggiungono anche la soglia delle decine di migliaia l’anno.

Le commissioni di certificazione sono istituite presso:

a)                 gli Enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento, ovvero a livello nazionale quando la commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale. Qui, probabilmente, la commissione sarà costituita in via paritetica tra i sottoscrittori degli accordi;

b)                 le Direzioni provinciali del Lavoro e le Province, secondo quanto stabilito da un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali che sarà emanato nei sessanta giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento delegato;

c)                 le Università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie, registrate in un albo ministeriale, esclusivamente nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di ruolo di diritto del lavoro, ai sensi dell’art. 66 del DPR n. 382/1980.  Tale norma disciplina i contratti di ricerca, di consulenza e convenzioni di ricerca per conto terzi in ambito universitario e definisce, anche , il sistema dei compensi correlato alla retribuzione complessiva. Si diceva che le Università e le Fondazioni debbono registrarsi preventivamente in un albo: esso è istituito dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali con decreto “concertato” con quello dell’Istruzione. Il requisito per la registrazione ed il suo mantenimento è rappresentato dalla presentazione (all’atto dell’iscrizione ed ogni sei mesi) di studi ed elaborati contenenti indici e criteri giurisprudenziali di qualificazione dei contratti di lavoro con riferimento alle tipologie indicate dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Appare abbastanza singolare la condizione che le Università dovranno rispettare per ottenere il mantenimento della registrazione: infatti, c’è il rischio che ogni sei mesi, soprattutto se saranno molte quelle accreditate, valanghe di documenti, anche ripetitivi (si tratta di commenti e sentenze attinenti la contrattualistica del lavoro), si riversino sulle strutture ministeriali che dovranno, poi, elaborare la sintesi di tali orientamenti.

L’ultimo comma prevede che le commissioni possano concludere convenzioni finalizzate alla costituzione di una commissione unitaria di certificazione: ciò, a mio avviso, potrebbe rappresentare, sul territorio, una cosa utile, in quanto si frenerebbe la possibilità di indirizzi non univoci sul territorio di riferimento.

 

ART. 77 Competenza

 

La norma individua da un punto di vista territoriale gli Uffici ove va indirizzata l’istanza di certificazione. Se essa è rivolta alle Direzioni provinciali del Lavoro o alle Province (presumibilmente, all’Assessorato che si occupa dei problemi del Lavoro) il criterio da seguire è quello ove insiste l’azienda o una sua dipendenza presso la quale sarà addetto il lavoratore. Nel caso, invece, in cui le parti si intendano rivolgere all’Ente bilaterale, occorrerà far riferimento a dove le commissioni di certificazione sono state istituite dalle rispettive associazioni dei datori e dei datori di lavoro. Par di capire, quindi, che mentre per la prima ipotesi la struttura provinciale è un fatto immediatamente percepibile (perché tali sono non solo le Province ma anche le articolazioni periferiche del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), per le seconde potrebbe non essere così e, quindi, sarà necessario fare riferimento a ciò che le parti sociali avranno deliberato ( in alcune realtà potrebbe non essere istituita la commissione che potrebbe avere, ad esempio, un ambito regionale di riferimento).

 

ART. 78 Procedure di certificazione e codice di buone pratiche

 

La procedura di certificazione è volontaria ed è successiva ad una istanza sottoscritta da entrambe le parti. Essa segue alcune regole che vanno determinate al momento della costituzione (es. ordine cronologico di evasione) e si svolgono nel rispetto dei c.d. “codici di buone pratiche” adottati con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, da emanare nei sei mesi successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo. In essi dovrebbero trovare riferimento (comma 4) le clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti, con riferimento ai diritti ed ai trattamenti economici e normativi. Questi codici recepiscono, ove esistenti, le eventuali indicazioni contenute in accordi interconfederali. Lo stesso Ministro provvede, altresì (comma 5), a definire un apposito modulario per la certificazione del contratto o del programma negoziale, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti sulla qualificazione del rapporto di lavoro autonomo o subordinato, in relazione alle diverse tipologie di lavoro.

Detto questo, occorre sottolineare alcuni principi che, secondo il Legislatore delegato, debbono essere presi in considerazione:

a)                 l’inizio del procedimento (par di capire, anche quando non è rivolto direttamente alla stessa ma all’Ente bilaterale, alla Provincia o all’Università) va comunicato alla Direzione provinciale del Lavoro  che ha il compito di notificare l’istanza a tutte le autorità pubbliche nei confronti delle quali l’atto certificativo è destinato a produrre effetti. Queste ultime possono presentare osservazioni alle commissioni di certificazioni. Così come è scritta, la disposizione si presta a qualche osservazione e chiarimento. E’ indubbio che l’organo periferico del Ministero del Lavoro è stato individuato come momento di raccordo di tutta l’attività certificativa. E’ indubbio che ciò comporterà la creazione di una nuova struttura di supporto a  questa nuova attività, con prevedibili conseguenze sul piano operativo soprattutto in quegli Uffici del nord con paurose carenze di organico. E’ indubbio che, con chiarimento amministrativo, dovrà essere specificato cosa si intenda per autorità pubbliche nei cui confronti la certificazione è destinata a produrre effetti e in che modo le loro osservazioni possono incidere sull’attività certificatoria, atteso che si tratta pur sempre di un’attività che riguarda la sfera privata di singoli cittadini i quali intendono regolare in un certo modo i loro rapporti professionali. A mio avviso e ripeto, fatte salve le eventuali delucidazioni degli organi sopra ordinati, l’invio ad autorità pubbliche per le eventuali osservazioni può riguardare, senzaltro, quelle (identificate, “a priori” dalle stesse parti per la natura della prestazione) sulle quali la qualificazione e la tipologia del rapporto può avere effetti, anche indiretti (si pensi, ad esempio, ad un appalto pubblico), mentre non sono da escludere interpelli nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e dell’Agenzia delle Entrate, per i riflessi sui contributi previdenziali, sui premi assicurativi e sulle imposizioni fiscali. La disposizione fissa in trenta giorni il termine massimo per la conclusione dell’iter procedimentale: ciò significa che la risposta degli Enti pubblici interessati dovrà essere celere e, soprattutto, se non si vorrà svuotare la norma, non dovrà essere di mero adempimento ad un obbligo burocratico;

b)                 il procedimento di certificazione si deve concludere entro trenta giorni dal ricevimento dell’istanza. La previsione di tale termine postula, soprattutto in quelle realtà ove, presumibilmente molti rapporti saranno certificati, un’attività continua e giornaliera delle commissioni di certificazione. Vale la pena di sottolineare come le conseguenze possibili in ordine allo “sforamento” del termine massimo siano diverse da quelle, ad esempio, previste per il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali del settore privato (sessanta giorni) e pubblico (novanta giorni). Qui, infatti, la mera decorrenza temporale abilita il soggetto ricorrente a proporre ricorso giudiziale e, in ultima analisi, è sempre il magistrato che decide in ordine a quanto richiesto. Nel caso della certificazione, invece, potrebbe configurarsi una sorta di responsabilità, anche indiretta, in quanto le parti che, volontariamente, si sono rivolte alle commissioni intendono avere riscontri certi al loro operato;

c)                 l’atto di certificazione deve essere motivato e deve contenere il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere. Il testo non prevede un eventuale organo amministrativo destinatario del ricorso. Ciò significa che lo stesso è da intendersi definitivo ed il riferimento all’autorità cui è possibile ricorrere va, a mio avviso, inteso con la necessità di apporre in calce al provvedimento che è esperibile il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (entro sessanta giorni) o ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (entro centoventi giorni). Ovviamente, potrebbe, altresì, essere specificato che in caso di erronea qualificazione del rapporto o difformità del programma effettivo di lavoro rispetto a quello certificato, è esperibile ricorso al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro;

d)                 l’atto deve contenere un riferimento esplicito agli effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali rispetto ai quali le parti hanno richiesto la certificazione.

I contratti di lavoro certificati con la relativa documentazione vanno conservati presso le sedi di certificazione (Enti bilaterali, Direzioni provinciali del Lavoro, Province, Università) per i cinque anni successivi alla loro scadenza. E’ questo un termine da tenere in particolare attenzione sia ai fini di un eventuale “svecchiamento” della documentazione in archivio, che per la circostanza che copia del contratto può essere richiesta sia dai centri per l’impiego (per questioni correlate alla posizione lavorativa del soggetto in cerca di occupazione) che dalle altre autorità pubbliche nei confronti delle quali l’atto di certificazione è destinato a produrre effetti.    

Un caso che potrebbe presentarsi è quello della mancata certificazione del contratto: ciò potrebbe configurare, soprattutto se il rapporto ha già avuto inizio, una sorta di “prova” a favore del lavoratore, nel caso in cui lo stesso intenda ricorrere in giudizio.

 

ART. 79 Efficacia giuridica della certificazione

 

L’art. 5, lettera e) della legge n. 30/2003 afferma che l’atto di certificazione ha “piena forza di legge”: ciò significa che esso dispiega i propri effetti sia nei confronti degli Enti previdenziali che anche verso i terzi. Su questa linea si pone la disposizione contenuta nell’art. 79 la quale precisa che la sua efficacia rimane fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili, ad eccezione dei provvedimenti cautelari. Ciò significa che, fino a quando non risulta emessa una sentenza di merito di condanna, agli Istituti previdenziali e fiscali può sempre essere opposta la certificazione a suo tempo sottoscritta.

 

ART. 80 Rimedi esperibili nei confronti della certificazione

 

Le parti o i terzi nelle cui sfera giuridica l’atto ha prodotto i suoi effetti, possono proporre avverso l’atto di certificazione al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, competente per territorio secondo i criteri individuati dall’art. 413 c.p.c., commi 2 e 3 (la competenza per territorio si ricava dal luogo ove è sorto il rapporto o si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale risulta addetto il lavoratore o dove prestava la propria opera al momento della fine del rapporto).

La motivazioni alla base del ricorso devono essere riconducibili alla erronea qualificazione del contratto o alla difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione (ad esempio, non “contratto a progetto” ma rapporto di lavoro subordinato).  L’autorità giudiziaria è, altresì, destinataria di eventuali impugnative dell’atto di certificazione per vizi del consenso (dolo, errore, violenza).

Il successivo comma si occupa del momento in cui ha effetto la sentenza del giudice in ordine alle difformità riscontrate. Se si tratta di una erronea qualificazione l’accertamento giurisdizionale ha efficacia dal momento della conclusione dell’accordo contrattuale, se, invece, ad essere accertata è la difformità tra il programma concordato e la sua effettiva realizzazione, la sentenza ha effetto dal momento in cui è iniziata la difformità.

Il comportamento tenuto dalle parti sia in sede di certificazione che nel tentativo obbligatorio di conciliazione di cui si parlerà tra poco, può essere valutato dal giudice ai fini della liquidazione delle spese alla luce delle previsioni contenute negli art. 92 (condanna alle spese per singoli atti e compensazione delle spese) e 96 (responsabilità aggravata) c.p.c. .

La norma non è nuova nell’ordinamento lavoristico: basti pensare che essa può trovare applicazione anche relativamente ai verbali di mancata conciliazione previsti dall’art. 411 c.p.c: infatti, il testo modificato, a suo tempo introdotto dall’art. 38 del D. L.vo n. 80/1998, recita, al quarto comma, che “delle risultanze del verbale di cui al primo comma il giudice tiene conto in sede di decisione sulle spese del successivo giudizio".

Il ricorso giudiziale contro le certificazioni deve essere obbligatoriamente preceduto dal tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 410 c.p.c. da espletarsi innanzi alla commissione di certificazione che ha emanato l’atto.

Alla luce di tale disposizione (a meno che la commissione di certificazione non coincida con la commissione provinciale di conciliazione per le controversie di lavoro, cosa che, al momento, sembra da escludersi) si evince che  nuovi organi collegiali avranno la competenza ad effettuare, presso le Direzioni provinciali del Lavoro, le Province, gli Enti bilaterali e le Università, il tentativo obbligatorio di conciliazione i cui effetti (applicandosi la procedura prevista dall'art. 410 c.p.c.), in caso di soluzione positiva, sono caratterizzati dalla inoppugnabilità. La competenza di detti organismi sarà, per così dire, esclusiva, essendo limitata all’accertamento dei fatti correlati all’atto di certificazione.

L’ultimo comma si preoccupa del ricorso giurisdizionale amministrativo avverso l’atto di certificazione: la competenza è del Tribunale  Amministrativo Regionale nella cui giurisdizione ha sede la commissione che ha certificato il contratto e l’atto può essere impugnato per violazione delle regole procedimentali e per eccesso di potere. La disposizione riguarda tutte te certificazioni, anche quelle rilasciate dalle commissioni istituite presso gli Enti bilaterali che sono di origine privatistica: in questo caso, l’impugnazione amministrativa dell’atto si configura come quella di un provvedimento emanato da un “incaricato di pubblico servizio”.

Un problema non secondario si pone nel caso in cui il giudice di merito abbia accertato una errata qualificazione del contratto. E’ chiaro che ogni situazione va esaminata facendo riferimento al caso concreto, tuttavia, si potrebbe ipotizzare anche una qual si voglia responsabilità della commissione di certificazione.

 

ART. 81 Attività di consulenza e assistenza alle parti

 

La norma affida alle sedi di certificazione (quindi, Enti bilaterali, Direzioni provinciali del Lavoro, Province, Università) funzioni di consulenza ed assistenza, sia in relazione alla stipula del contratto  di lavoro, che del programma negoziale che delle modifiche al programma stesso, anche in relazione alla disponibilità dei diritti ed alla esatta qualificazione del rapporto di lavoro. Va ricordato che tale ultimo compito è da mettere in stretta correlazione con il decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali che sarà emanato entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo, nel quale saranno individuate le  clausole indisponibili in sede di certificazione, con specifico riferimento ai diritti ed ai trattamenti economici e normativi (art. 78, comma 4).

L’attività “consulenziale”, gratuita, a favore di entrambe le parti, se sarà svolta in maniera professionale, potrà configurarsi come una nuova attività delle strutture periferiche del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, particolarmente stimolante e foriera di sviluppi positivi per l’utenza, anche alla luce dei compiti che dovranno essere delineati nella delega prevista dall’art. 8 della legge n. 30/2003.

 

CAPO II

Altre ipotesi di certificazione

 

ART. 82 Rinunzie e transazioni

 

La disposizione consente agli Enti bilaterali e a loro soltanto atteso che la norma si riferisce all’art. 76, comma 1, lettera a) la competenza a certificare le rinunzie e le transazioni ex art. 2113 c.c. confirmatorie della volontà abdicativa o transattiva delle parti.

 

ART. 83 Deposito del regolamento interno delle cooperative

 

La procedura di certificazione trova applicazione anche all’atto di deposito del regolamento interno delle cooperative riguardanti la tipologia dei rapporti attuati o da attuare, in forma alternativa, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 142/2001: la procedura di certificazione riguarda soltanto il regolamento depositato.

Come è noto, la legge appena citata e l’art. 9 della legge n. 30/2003 sono intervenuti sul tema della qualificazione del rapporto con i soci lavoratori ed hanno stabilito che il deposito dei regolamenti interni per la identificazione delle tipologie ulteriori dovesse avvenire presso le Direzioni provinciali del Lavoro: per quelle esistenti il termine, più volte prorogato, è ora fissato al 31 dicembre 2003.

Orbene, la procedura di certificazione riguarda il contenuto del regolamento e non i singoli rapporti ulteriori con i soci lavoratori.

Il compito di certificazione è affidato dal Legislatore delegato a specifiche commissioni istituite presso le Direzioni provinciali del Lavoro o le Province (art. 76, comma 1, lettera b) e, a differenza di quelle che hanno competenza generale, per queste è già stabilita la composizione. Esse sono presiedute da un presidente indicato dalla Provincia e da rappresentanti delle associazioni di assistenza, tutela e rappresentanza del movimento cooperativo e dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori, comparativamente più rappresentative. In tali commissioni non sembra previsto alcun rappresentante della Direzione provinciale del Lavoro, pur essendo la commissione destinata ad insediarsi, presumibilmente,  presso tale sede ove sono depositati i regolamenti.

Nulla dice, infine, l’articolato circa il soggetto destinato ad emanare l’atto costitutivo della commissione, né il numero complessivo dei componenti (si parla soltanto di “pariteticità”).

 

ART. 84 Interposizione illecita e appalto genuino

 

La procedura di certificazione può essere adoperata anche per distinguere la figura della somministrazione di lavoro da quella dell’appalto, alla luce sia delle previsioni specifiche contenute nel Titolo III (articoli da 20 a 30) che dell’art. 1655 c.c. secondo il quale “l’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”.

Anche in questo caso il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali è chiamato ad esercitare un potere amministrativo attraverso l’emanazione di un proprio decreto: entro i sei mesi successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo dovranno essere adottati “codici di buone pratiche” ed indici presuntivi in materia di interposizione illecita e di appalto genuino i quali tengano conto della rigorosa verifica della reale organizzazione e della assunzione effettiva del rischio tipico d’impresa da parte dell’appaltatore. Le eventuali indicazioni contenute negli accordi interconfederali e nei contratti collettivi nazionali dovranno essere recepite nei codici e negli indici presuntivi.

Non si dovrebbe essere lontani dal contenuto delle c.d. “buone pratiche” se si fa riferimento a quanto la giurisprudenza ha elaborato, in passato, sull’argomento. Mi riferisco ai concetti di “appaltatore privo di una propria organizzazione” (riconducibile, ad esempio, alla mancanza di autonomia funzionale, alla mancanza di personale tecnico specializzato, alla mancanza di attrezzature specifiche, alla mancanza di una gestione diretta del proprio personale) e di “natura delle prestazioni svolte” (è il caso dell’attività svolta che non rientra tra quelle tipiche dell’appaltatore).

 

 

TITOLO IX

Disposizioni transitorie e finali

 

ART. 85 Abrogazioni

 

La disposizione contiene una serie di disposizioni che, con l’entrata in vigore, a partire dal 24 ottobre 2003, del decreto legislativo n. 276/2003, sono abrogate. Molte di esse sono state già richiamate allorchè, nei vari articoli è stato trattato l’argomento cui si riferivano: tuttavia,  ritengo opportuno, anche per motivi di sistematicità, evidenziarle:

a)                 l’art. 27 della legge n. 264/1949: il comma 2 di tale articolo era già stato abrogato dall’art. 8 del D. L.vo n. 297/2002 e, quindi, la cancellazione, pur essendo l’articolo nominato nella sua interezza, riguarda soltanto i commi 1 e 3 ove erano punite la mediazione illecita (ora oggetto di specifica sanzione all’art. 18) e la mancata comunicazione della cessazione del rapporto ai centri per l’impiego (ora sanzionata dall’art. 19);

b)                 l’art. 2, comma 2 e l’art. 3 della legge n. 25/1955: è pur vero che fino a quando il nuovo apprendistato non sarà pienamente attuato, restano in vigore la legge n. 25/1955 e le altre disposizioni ad essa correlate, ma è anche vero che alcune norme sono cancellate, da subito. La prima riguarda l’autorizzazione preventiva della Direzione provinciale del Lavoro finalizzata ad instaurare un rapporto con tale tipologia contrattuale, la seconda (art. 3) concerne l’iscrizione obbligatoria degli apprendisti presso i centri per l’impiego finalizzata all’assunzione, l’obbligo dei datori di lavoro di rivolgersi alle strutture pubbliche del collocamento per assumere apprendisti ed il limite alla richiesta nominativa per le imprese non artigiane che intendono assumere apprendisti.

c)                 la legge n. 1369/1960: tutte le disposizioni che vietavano l’intermediazione e l’interposizione nelle prestazioni di lavoro sono caducate in quanto sostituite integralmente dalla nuova disciplina. Vale la pena di ricordare che gli effetti abrogativi si riverberano anche sull’art. 5 che prevedeva l’esclusione dalla solidarietà in una serie di ipotesi (lettera g) che dovevano essere autorizzate preventivamente dalla Direzione provinciale del Lavoro;

d)                 l’art. 21, comma 3, della legge n. 56/1987: anche questa era una norma che riguardava gli apprendisti e generalizzava la richiesta nominativa per le imprese non artigiane  e quella diretta per le ditte artigiane. Ora l’assunzione avviene, in tutti i settori per tutti i lavoratori e per tutte le tipologie (fanno eccezione i disabili ed i lavoratori extra comunitari provenienti dall’estero) attraverso la comunicazione di assunzione diretta;

e)                 gli art. 9 – bis, comma 3 e 9 – quater, commi 4 e 18, quest’ultimo limitatamente alla violazione degli obblighi di comunicazione “ex lege” n. 608/1996. L’abrogazione di queste disposizioni è strettamente correlata alle nuove sanzioni sulla comunicazione ai centri per l’impiego disciplinate dall’art. 19 e si riferiscono sia al collocamento ordinario che a quello agricolo. La cancellazione dei comma 4 e 18 dell’art. 9 – quater  fa, sostanzialmente, riferimento all’obbligo di comunicazione al centro per l’impiego dei datori di lavoro agricoli, sostituito sotto l’aspetto sanzionatorio dal predetto art. 19. Ovviamente, restano in vigore nel collocamento agricolo le specifiche sanzioni correlate al registro d’impresa (compilazione ed esibizione);

f)                   gli articoli da 1 ad 11 della legge n. 196/1997: sparisce la disciplina specifica del lavoro interinale in quanto sostituita dalla normativa contenuta nel decreto legislativo;

g)                 l’art. 4, comma 3, del D. L.vo n. 72/2000: si tratta della norma che, attuando la direttiva  96/71/CE in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, prevedeva, per le imprese di lavoro temporaneo con sede in un altro Paese dell’Unione Europea, l’attestazione di equivalenza rispetto al provvedimento di autorizzazione rilasciata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali entro i trenta giorni successivi alla richiesta;

h)                 l’art. 3 del DPR n. 442/2000: si tratta delle disposizioni relative alla tutela dei dati personali relativi ai soggetti che cercano ed offrono lavoro per i quali il nuovo provvedimento prevede una specifica normativa;

i)                   tutte le disposizioni legislative e regolamentari incompatibili con il presente decreto: si tratta di una disposizione di “chiusura”: sarebbe opportuno che, da un punto di vista amministrativo, si giungesse, anche per evitare possibili contenziosi, ad una redazione delle disposizioni che si intendono implicitamente abrogate;

Alle abrogazioni appena evidenziate ne va aggiunta un’altra che interviene attraverso una soppressione di parole nell’art. 2, comma 1, del D. L.vo n. 61/2000: non c’è più per il datore di lavoro l’obbligo di inviare alla Direzione provinciale del Lavoro entro i trenta giorni successivi alla stipulazione copia del contratto di assunzione a tempo parziale e, conseguentemente (anche se non c’è stata l’abrogazione esplicita dell’art. 8, comma 4) non c’è più la sanzione amministrativa (pari ad euro 15,49 al giorno) per il ritardato invio che scattava dopo che era trascorso il termine massimo sopra citato.

 

ART. 86 Norme transitorie e finali

 

La disposizioni contenute  in questo ultimo articolo (diverse tra loro per contenuto) sono state, in parte, già richiamate allorchè sono stati trattati gli argomenti specifici di riferimento: esse, destinate nella maggior parte dei casi a disciplinare la fase transitoria e a dare chiarimenti su alcuni argomenti particolari, sono, comunque, riprese per dare un quadro di sistematicità alla riflessione.

 Il primo comma si occupa delle collaborazioni coordinate e continuative: quelle che non sono riconducibili ad un progetto o ad una parte di esso mantengono la propria efficacia fino alla scadenza e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del provvedimento.  C’è, però , la possibilità che con accordi in sede aziendale, stipulati con lei rappresentanti delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative si possa arrivare ad una proroga delle collaborazioni oltre il periodo massimo previsto. In sostanza, il termine è “flessibile” in tutte quelle ipotesi in cui il datore di lavoro sottoscriva un accordo con la propria controparte sindacale in azienda.

Il comma successivo riguarda le associazioni in partecipazione che, presumibilmente, in alcune ben determinate ipotesi, potrebbero prendere il posto delle collaborazioni coordinate  continuative. Ebbene, il Legislatore delegato si è preoccupato di mettere alcuni “paletti” al fine di evitare un uso distorto delle norme ed ha affermato che l’associazione in partecipazione senza una effettiva partecipazione ed una adeguata erogazione dei compensi, comporta il diritto per il prestatore d’opera al trattamento economico, normativo e contributivo previsto dal CCNL per i lavoratori subordinati che svolgono la medesima attività nello stesso settore. Il datore di lavoro o committente può sottrarsi da tale onere soltanto producendo idonea documentazione attestante che la prestazione rientra nella tipologia contrattuale, a monte identificata, ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale, o in un contratto di lavoro autonomo previsto dall’ordinamento. Da quanto appena detto e fermo restando che la disposizione non appare scritta in maniera molto felice, emerge che l’associato in partecipazione ha, comunque, diritto a ricevere un corrispettivo non inferiore a quello stabilito in un contratto collettivo applicato in attività dello stesso settore, a meno che il datore di lavoro non provi che ci si trova di fronte ad un contratto “tipico”, fornendo “idonea (si tratta di capire quale) documentazione”. Va, comunque, ricordato che anche per i contratti in partecipazione l’art. 75 prevede la possibilità della procedura di certificazione. E’, inoltre, il caso di aggiungere che l’art. 43, comma 2, del D. L. n. 269/2003 ha introdotto, a partire dal 1° gennaio 2004, un contributo previdenziale, da versare alla gestione separata dell’INPS nell'associazione in partecipazione nel caso in cui vengano conferite prestazioni lavorative. Esso è a carico dell’associante nella misura del 55% ed a carico del soggetto associato nella misura del 45%. Da tale contribuzione sono esclusi gli iscritti agli albi professionali.

Le disposizioni che seguono rimodellano la disciplina del lavoro interinale sulle società di somministrazione, determinando alcuni “aggiustamenti” i più importanti dei quali si riferiscono alle causali, alle disposizioni fiscali, ai crediti privilegiati ed alla disciplina transitoria di raccordo da un regime all’altro.

Il comma 3 riguarda le causali a suo tempo previste per i contratti di lavoro interinali dall’art. 1 della legge n. 196/1997, ora abrogata dagli articoli da 1 ad 11. La disposizione afferma che le ipotesi previste dalla contrattazione collettiva (art. 1, comma 2, lettera a) restano in vigore, in via transitoria, fino alla data di scadenza dei contratti collettivi cui si riferiscono (salvo diverse intese di natura sindacale), con esclusivo riferimento alla determinazione delle esigenze di carattere temporaneo che consentono la somministrazione di lavoro a termine (esigenze tecnico – produttive, organizzative e sostitutive), come previsto dall’art. 20, comma 4. Una sorte diversa seguono le clausole contrattuali che traggono origine dall’art. 1, comma 3, della legge n. 196/1997: esse riguardano l’agricoltura e l’edilizia. Ebbene, queste clausole restano in vigore fino a quando le parti sociali non dispongano diversamente o si arrivi ad un recesso unilaterale, per disdetta, degli accordi precedenti.

Il comma 4 estende alla imprese di somministrazione alcune disposizioni specifiche già previste per le società di lavoro interinale. La prima è l’art. 26 –bis della legge n. 196/1997 (inserito dall’art. 7 della legge n. 133/1999) con il quale si precisa che i rimborsi degli oneri retributivi e previdenziali che il soggetto utilizzatore deve corrispondere all’impresa fornitrice, si intendono non compresi nella base imponibile IVA. La seconda riguarda il privilegio generale sui mobili: viene richiamato l’art. 2751 –bis c.c. che al comma 5 –ter inserisce tra i crediti privilegiati quelli delle imprese fornitrici di lavoro temporaneo per gli oneri retributivi e previdenziali addebitati alle imprese utilizzatrici.

Il comma successivo riferisce alle società di somministrazione anche la previsione contenuta nell’art. 17, comma 1, della legge n. 84/1994, come modificata dalla legge n. 186/2000 ove è disciplinata la fornitura del lavoro portuale temporaneo. Vale la pena di ricordare, brevemente, come in tale settore sia vigente una disciplina del tutto tipica a partire da chi (autorità portuale o marittima) autorizza l’erogazione delle prestazioni per operazioni e servizi ad imprese, la cui attività deve essere esclusivamente rivolta  a tale compito, con personale adeguato e risorse professionali proprie.    

Le società di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, ricollocamento professionale che avevano avuto l’autorizzazione ex D. L.vo n. 469/1997 sono soggette ad una disciplina transitoria che il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali è impegnato ad emanare entro i trenta giorni successivi all’entrata in vigore del decreto legislativo. In attesa di ciò conservano un’efficacia temporanea sia le norme di legge che quelle regolamentari vigenti.

Con un’altra disposizione di raccordo (comma 7) viene disciplinato l’obbligo di comunicazione delle assunzioni, delle cessazioni e delle proroghe per le assunzioni a tempo determinato od indeterminato effettuate dalle imprese di somministrazione. Trova, infatti, applicazione l’art. 4 –bis, comma 4, del D. L.vo n. 181/2000, come modificato dal D. L.vo n. 297/2002, il quale prevede che le imprese interinali sono tenute ad effettuare le comunicazioni “di rito” ai centri per l’impiego ove insiste la sede operativa, entro il venti del mese successivo a quello cui si riferiscono. La sanzione amministrativa è compresa tra 50 e 250 euro. Per completezza di informazione, va ricordato che l’art. 19, comma 4, del decreto legislativo, prevede, in caso di omissione delle comunicazioni obbligatorie una sorta di “ravvedimento operoso”: se, infatti, le comunicazioni sono inviate nei cinque giorni successivi al termine di scadenza, l’importo da pagare, per ogni lavoratore interessato è pari alla metà del minimo, ossia 25 euro.

Con il comma 8, il Legislatore delegato affronta, invece, un altro argomento: quello della armonizzazione degli istituti relativi al Pubblico Impiego alla nuova disciplina. Vale la pena di ricordare che l’art. 6 della legge n. 30/2003 ed il conseguente art. 1, comma 2, del decreto legislativo (il quale non poteva far altro che adeguarsi) hanno stabilito che la normativa novellata non si applica alla Pubblica Amministrazione ed al suo personale se non espressamente richiamata. Ciò ha causato un blocco nel processo normativo di progressiva assimilazione tra pubblico e privato iniziato da almeno un decennio con il D. L.vo n. 29/1993 e, francamente, questo ha suscitato più di una perplessità se si pensa che, ad esempio, le collaborazioni coordinate e continuative (molto in voga presso le Università e gli Enti locali) continuano nel settore pubblico mentre cessano di esistere in quello privato. Di ciò si è reso conto il Legislatore delegato che è, in un certo senso, corso ai ripari. Entro i sei mesi successivi alla entrata in vigore del nuovo provvedimento, il Ministro per la Funzione Pubblica convoca le organizzazioni sindacali dei dipendenti maggiormente rappresentative per esaminare l’eventuale armonizzazione della contrattualistica pubblica con la nuova normativa: è auspicabile che ciò porti, almeno per i profili di compatibilità, ad un unico regime.

Con il comma 9 vengono trattati tre argomenti, di cui il secondo ha profondi riflessi anche nel settore privato.

Il primo riguarda la richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato da parte del lavoratore, qualora la somministrazione sia avvenuta in maniera irregolare (art. 27, comma 1). Essa non si applica alle Pubbliche Amministrazioni che, anzi, possono ricorrere a tale contratto soltanto per prestazioni a termine. La disposizione riprende un concetto già presente, da tempo, nel nostro ordinamento pubblico e, da ultimo, ripreso nel D. L.vo n. 165/2001, laddove si afferma, anche con riferimento ai contratti a termine, la non possibilità della conversione a tempo indeterminato in quanto “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori (che può avvenire soltanto per concorso pubblico o prove selettive, fatti salvi i pochi casi di “assunzione diretta” per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata) non può comportare la costituzione di rapporti a tempo indeterminato, ferma restando ogni responsabilità o sanzione” che è riferibile, ovviamente, al funzionario o dirigente pubblico che ha causato l’illecito.

Il secondo concerne la fine dei contratti di formazione e lavoro. Le disposizioni che ad essi si riferiscono trovano applicazione soltanto nei confronti della Pubblica Amministrazione. Si salva soltanto, il particolare regime decontributivo, che resta per quasi tutti i contratti di inserimento (non trova applicazione, infatti, per quelli che saranno stipulati con soggetti di età compresa tra diciotto e ventinove anni). La fine di tale tipologia contrattuale, peraltro, da tempo annunciata, soprattutto dopo la decisione della commissione “Van Miert” e la sentenza della Corte di Giustizia Europea, comporta, a mio avviso, l’impossibilità di stipularne di nuovi nel settore privato (anche se scaturenti da un progetto già approvato), mentre quelli in corso continuano fino alla loro scadenza con la normativa di riferimento prevista. Per completezza di informazione, va sottolineato come qualche interprete ritenga, invece, che possano, comunque, essere stipulati contratti di formazione e lavoro anche dopo l’abrogazione, purchè si sia in presenza di un progetto già approvato. Sul punto sarà, comunque, indifferibile un chiarimento amministrativo, atteso che la disposizione, così come è scritta, potrebbe, in futuro, generare contenzioso (con tutte le conseguenze del caso anche).

Una riflessione singolare si rende necessaria: tutta la normativa sui contratti di formazione e lavoro, a partire dai decreti legislativi più volte reiterati che, poi, confluirono nella legge n. 863/1994, nata per il settore privato ed estesa, successivamente, con molti “distinguo” a quello pubblico, rimane in piedi soltanto per tale ultimo settore che, peraltro, non vi ha fatto, mai, un ricorso eccessivo. Va ricordato che nella legge n. 289/2002, in considerazione delle difficoltà economiche delle “casse pubbliche, fu stabilito che tutti i contratti di formazione in scadenza (e che, quindi, potevano, di conseguenza, essere trasformati), erano prorogati al 31 dicembre 2003.

In conseguenza di ciò, si può affermare che, per un certo periodo (almeno fino a quando la contrattazione collettiva o, in sua assenza, la decretazione ministeriale non provvederà alla definizione dei piani individuali ed alla definizione di orientamenti, linee – guida e codici di orientamento dei contratti di inserimento i quali tra i soggetti destinatari possono prevedere anche i lavoratori con età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni), l’unico contratto formativo a disposizione per assumere giovani rimane quello di apprendistato il quale, nelle more dell’attuazione della nuova disciplina, continua con le vecchie regole.

Il terzo argomento si riferisce alle sanzioni amministrative in materia di collocamento previste dall’art. 19: la disposizione trova applicazione anche nei confronti della Pubblica Amministrazione. A mio avviso, tuttavia, non tutta la disposizione sanzionatoria può trovare applicazione. Infatti, il comma 2 dell’art. 19, richiama l’art. 4, comma 2, del D. L.vo n. 181/2000, come modificato dall’art. 6, comma 1, del D. L.vo n. 297/2002: ebbene tale obbligo (iscrizione sul libro matricola con comunicazione dei dati di registrazione al lavoratore e lettera di assunzione, prima della stessa) riguarda soltanto i datori di lavoro privati e gli Enti pubblici economici.

Con il comma 10 sono stati apportati “aggiustamenti” alla normativa sugli obblighi del committente o del responsabile dei lavori, prevista dall’art. 3 del D. L.vo n. 494/1996. Si è, in particolare, intervenuti, sul comma 8, modificando la lettera b) ed aggiungendo le lettere b-bis e b-ter, con la conseguenza che anche nel settore privato debbono essere posti in essere gli adempimenti sulla regolarità contributiva finora previsti soltanto per il settore pubblico.

Con la prima il committente è tenuto a chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo, distinto per qualifica, nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo, stipulato dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, applicato. Con il comma b –bis) si afferma il principio della richiesta del certificato di regolarità contributiva che è rilasciato dall’INPS, dall’INAIL e dalle Casse edili, ognuno per la propria competenza. La disposizione stimola tali Enti a stipulare apposita convenzione finalizzata al rilascio di un unico documento di regolarità contributiva. Con il comma b –ter) è fatto obbligo al committente o al responsabile dei lavori di trasmettere all’Amministrazione concedente, prima dell’inizio dei lavori oggetto della concessione edilizia o all’atto della presentazione della denuncia di inizio dell’attività, il nominativo dell’impresa esecutrice dei lavori unitamente alla documentazione attestante l’organico medio annuo, il CCNL applicato ed il certificato di regolarità contributiva.

Con il comma 11 il Legislatore delegato mette riparo ad un inconveniente verificatosi con l’abrogazione dei compiti della commissione regionale per l’impiego (ora sostituita in gran parte d’Italia dalla commissione regionale tripartita), previsti dall’art. 5 della legge n. 56/1987. Ciò era avvenuto con l’art. 8 del D. L.vo n. 297/2002 ed aveva causato notevoli inconvenienti operativi in Sardegna, ove non era ancora avvenuta la “regionalizzazione” dei servizi per l’impiego. Orbene, con questa disposizione viene fornita una sorta di interpretazione “autentica”: l’abrogazione non trova applicazione nelle Regioni a Statuto speciale ove non sia effettivamente avvenuto il trasferimento delle funzioni in materia di lavoro, previsto  dal D. L.vo n. 469/1997.  

Con il comma 12 viene affermato il principio del carattere sperimentale di alcuni istituti. Ci si riferisce agli articoli 13 (misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato), 14 (cooperative sociali e inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati), 34, comma 2 (lavoro intermittente per i disoccupati sotto i venticinque anni o con più di quarantacinque anni), al Titolo III (somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco), al Titolo VII, capo II (prestazioni occasionali di tipo accessorio) e al Titolo VIII (procedure di certificazione). Il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali si riserva, una volta trascorsi diciotto mesi dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni, di verificarne l’impatto anche alla luce delle osservazioni delle organizzazioni sindacali e di riferirne al Parlamento nel trimestre successivo per valutarne l’ulteriore vigenza.

Con il comma 13 il Legislatore delegato individua lo strumento per mettere in moto la complessa macchina organizzative postulata dal decreto legislativo. Entro i cinque giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali convoca le parti sociali per verificare la possibilità di affidare ad uno o più accordi interconfederali la gestione complessiva della nuova materia, sia con riferimento al regime transitorio che all’attuazione dei rinvii contenuti ai contratti collettivi (con la possibilità di chiarire, ove possibile, anche dubbi interpretativi). Nel caso specifico, dopo la pubblicazione del D.L.vo n. 276/2003, ciò è avvenuto con un primo incontro convocato per il giorno 16 ottobre 2003.

Da ciò si evince l’impegno ad un coinvolgimento concreto delle organizzazioni sindacali, oltre che, ovviamente, della conferenza Stato –Regioni più volte richiamata nel testo normativo: par di capire che il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali è pronto a far propri, anche negli atti amministrativi che il decreto gli impone di emanare, i principi stabiliti negli accordi collettivi.

L’ultimo comma riguarda il monitoraggio degli effetti derivanti dalle misure contenute nel provvedimento delegato: esso è affidato all’INPS che comunica i risultati sia al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che a quello dell’Economia e delle Finanze anche per l’adozione di provvedimenti correttivi. Qualora ciò comporti eccedenze di spesa rispetto alla legislazione vigente, si dovranno rideterminare i fondi, attingendo dal Fondo per l’occupazione, previsto dall’art. 1, comma 7, della legge n. 236/1993.

  

 

EUFRANIO MASSI   

Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro di Modena